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 2019  ottobre 13 Domenica calendario

La vera storia degli spaghetti al pomodoro

WIMBLEDONX
Nel 1957, nel libro  Maccheroni & C., Giuseppe Prezzolini scriveva di avere «letto molti libri di professori nonché di professoresse sull’influenza dell’Italia e della cultura italiana in America, pubblicati da rispettabilissime case editrici e tutti ben documentati sulla fama di Dante Alighieri e sulle traduzioni che ha subito e sui commenti che da questa parte dell’oceano gli hanno inflitto; ma, domando io, che son un professore poco professorale, che cos’è la gloria di Dante appresso a quella degli spaghetti?». L’opera di Dante, proseguiva Prezzolini, «è il prodotto d’un singolare uomo di genio, mentre gli spaghetti son l’espressione del genio collettivo del popolo italiano». 
Paradossale e pungente, idealista e realista come pochi, l’autore del caustico Codice della vita italiana coglieva ancora una volta nel segno. Gli «spaghetti» sono simbolo e specchio della nostra identità. Tanto più, verrebbe da aggiungere e specificare, «gli spaghetti al pomodoro». Eppure né gli spaghetti né il pomodoro sono propriamente italiani, i primi provenienti dal Medio Oriente, il secondo dal Nuovo Mondo, giunto in Europa nel Cinquecento al seguito dei conquistatori spagnoli. Eppure è altrettanto vero che quando si dice «spaghetti al pomodoro» tutto il mondo pensa all’Italia.
Alle avventurose, affascinanti e golose vicende degli spaghetti al pomodoro è dedicato il libro Il mito delle origini di Massimo Montanari, storico del medioevo e dell’alimentazione, tra i più sagaci saggisti odierni. In omaggio a Marc Bloch, «il più grande storico europeo del Novecento», Montanari ripercorre le tappe degli spaghetti al pomodoro, motivo e pretesto per riflettere sulla storia e in particolare su una parola e un concetto ora molto di moda: il mito, appunto, delle «origini». Dalla storia all’antropologia, Montanari contesta «la prospettiva idolatrica» che spesso oggi «assume la nozione di “origine”, che finisce per acquisire un valore di garanzia – quasi ontologica, per così dire – della natura e della stessa qualità del prodotto. Origine diventa di per sé un valore». 
Il libro di Montanari ha il piglio del pamphlet illuministico, mosso e sostenuto da urgenze morali e civili. La «breve storia degli spaghetti al pomodoro» mostra l’insussistenza di soluzioni meccaniche e deterministiche, di percorsi obbligatori e unidirezionali. Al contrario essa mette in evidenza gli sviluppi di libertà che ogni storia ha in sé, le possibilità imprevedibili, gli intrecci e le scelte che cambiano traiettorie abituali. Nel vocabolario corrente, scriveva Bloch, «le “origini” sono un cominciamento che spiega. Peggio ancora: che è sufficiente a spiegare»: qui, afferma Montanari, «sta l’ambiguità, qui il pericolo: confondere una filiazione con una spiegazione. Perché una ghianda non è una quercia». 
Questo è lo sfondo sul quale Montanari si fa narratore di una delle più note e appetitose ricette universali. Tante le precisazioni e le smentite di luoghi comuni, tra cui la necessità di «ribadire l’estraneità della Cina alla storia “occidentale” della pasta», per la quale «l’impronta araba» fu invece decisiva. Per il pomodoro, giunto come molti altri prodotti familiari dalle Americhe (basti pensare alle patate e ai peperoni), fu Pellegrino Artusi (di cui l’anno prossimo sarà il bicentenario della nascita) che tra Otto e Novecento nel libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene diffuse «nel paese la consuetudine “meridionale” di condire la pasta con la salsa di pomodoro, la cui ricetta è introdotta dal curioso aneddoto di un prete di Romagna «che cacciava il naso dappertutto e, introducendosi nelle famiglie, in ogni affare domestico voleva metter lo zampino». 
Sta di fatto che la ricetta degli spaghetti al pomodoro non ha una paternità e un’età precisa, appartiene, come giustamente sottolineava Prezzolini, al «genio collettivo del popolo italiano». Ed è cresciuta nel tempo, dall’incontro e dall’incrocio di prodotti di epoche diverse, da combinazioni inattese. È il frutto di una disponibilità alla conoscenza reciproca, di una curiosità sorridente e senza prevenzioni. «Questa piccola grande storia», conclude Montanari, «ci ha mostrato – nella concretezza di un piatto di spaghetti – che l’identità non corrisponde alle radici»; e «più andiamo a fondo nella ricerca delle origini» più scopriamo che le «radici si allargano» e che «cercare le origini di ciò che siamo» è incontrare «gli altri che vivono in noi».
È un messaggio chiaro e aperto, utopico e concreto, di straordinaria fiducia nel futuro, insolito in questi tempi ristretti e avari. Fatte le dovute differenze, è una prospettiva salutare non lontana da quella della «filosofia degli spaghetti» enunciata da Prezzolini, secondo il quale un piatto di buona pasta assume il valore di un attimo assoluto di felicità, un fiammifero che illumina per un momento la spessa tenebra in cui viviamo. Pertanto, egli sigla, «in questo mondo anche il piatto di spaghetti che abbiamo sulla tavola è importante quanto una dottrina filosofica».