Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2019
I dispacci di Lawrence d’Arabia
Con i “se” e con i “ma” non si fa la storia. Lo dicono tutti; salvo, forse, gli storiografi. I quali, dovendo andare oltre la cronaca, per indicare al lettore il filo che tiene insieme gli avvenimenti del passato, ipotizzano spesso – almeno nella loro testa, e nell’atto di scriverne – come una determinata catena di cause ed effetti avrebbe dovuto portare a una certa conclusione. E invece…
Nessuno ha ormai più la fiducia nelle cose di questo basso mondo che aveva il vecchio Alexander Pope (1688-1744) quando, in un famoso emistichio, affermava che «Whatever is, is right». In particolare sul Medio Oriente è impossibile oggi non chiedersi, davanti alle immagini del telegiornale, “se” (appunto) le cose fossero andate temporibus illis in un altro modo, tutto quel che si vede ora non sarebbe successo.
Ricordo un mio amatissimo professore di latino che attribuiva l’origine degli scombussolamenti in quei territori al fatto che il grande Alessandro fosse morto (323 a. C.) la vigilia dell’invasione dell’Arabia e non avesse fatto in tempo a sistemare le cose. Un’ipotesi vale l’altra e forse quel professore era soltanto un vecchio storicista.
Certo è che leggendo prima l’introduzione e poi le pagine di Lawrence d’Arabia : i rapporti segreti della Rivolta Araba – alcuni dei quali inediti anche in Gran Bretagna –, messi insieme e tradotti con strenuo impegno da Fabrizio Bagatti per la Luni Editrice, rimane la tentazione di chiedersi “se” la storia non avrebbe potuto cambiare corso: se, cioè, gli inglesi e gli alleati francesi avessero mantenuto le promesse fatte agli arabi nel 1915, e poi bellamente tradite.
L’intera storia di quel che avvenne nel deserto del Hejaz in quegli anni tra le tribù arabe (nomadi e non) guidate da Lawrence e l’esercito regolare dei turchi sostenuti dai tedeschi è raccontata dallo stesso Lawrence in I sette pilastri della saggezza (1922). Un classico del ’900, talora trascurato da qualche professore, ma giudicato un capolavoro da G. B. Shaw e definito da Winston Churchill come «uno dei più grandi libri mai scritti in lingua inglese».
Bompiani ha mandato in libreria in queste settimane una nuova traduzione, opera dello stesso Fabrizio Bagatti, e può approfittarne chi non avesse mai avuto la ventura di leggerlo; magari tenendo d’occhio l’ormai classico Una pace senza pace. La caduta dell’impero ottomano e la nascita del Medio Oriente moderno di David Fromkin (Rizzoli) nonché la nuova edizione accresciuta di Lawrence d’Arabia. La vanità e la passione di un perdente di Franco Cardini (Sellerio).
I sette pilastri della saggezza e i Rapporti segreti sono l’uno figlio dell’altro, e si collocano fianco a fianco ma su due scaffali diversi. Il primo è una moderna chanson de geste e appartiene al mondo senza tempo della letteratura, mentre il secondo è una raccolta di documenti e appartiene all’ambito scientifico della ricostruzione storica. E poiché sono testi che si rispecchiano, ma che non si toccano (se non nella mente di chi li legge), una considerazione è d’obbligo.
Con un encomiabile lavoro di scavo e restauro compiuto negli archivi del Ministero degli Esteri inglese Fabrizio Bagatti ha dimostrato che, nell’insieme, i dispacci inviati dallo stesso Lawrence a chi di dovere nel corso del conflitto venivano – per ragioni di sicurezza o, peggio, per opportunità politica – normalmente “addomesticati” prima di comparire sulle pagine a tiratura limitata del «Bollettino arabo» al Cairo.
Ora, mentre I sette pilastri della saggezza è una esaltazione della “nobile arte della guerra”, che per un tormentato idealista come Lawrence corrispondeva alle imprese dei Cavalieri della Tavola Rotonda – e i morti, come nell’Iliade o nell’Orlando Furioso, sono solo mucchietti di sillabe –; l’alterazione dei documenti da parte dell’intelligence inglese grida vendetta per l’inutile sangue versato nel deserto e fanno pensare che gli Alleati (Francia, Gran Bretagna e Russia) non ebbero probabilmente mai intenzione di rispettare i patti con gli arabi.
«Tutti gli uomini sognano, ma non allo stesso modo», avrebbe scritto Lawrence nei Sette pilastri». E avrebbe aggiunto: «Coloro che sognano, di notte, scavando nei più polverosi recessi della propria mente, la mattina si svegliano e scoprono che era soltanto una vana fantasia; ma coloro che sognano di giorno sono uomini pericolosi perché possono cercare di trasformare in realtà i loro sogni a occhi aperti. Ed è proprio questo che ho fatto».
Alla conferenza di pace che seguì il conflitto, prevalsero le mire sul petrolio della Mesopotamia da parte degli inglesi e quelle imperiali sulla Siria da parte dei francesi, e non tardarono le ribellioni. In una lettera del 22 luglio 1920 al direttore del «Times» di Londra (in seguito raccolta in The Letters of T. E. Lawrence, a cura di David Garrett, Jonathan Cape), Lawrence spiegò perché per gli arabi il dominio inglese fosse ancora più inaccettabile di quello turco: «Abbiamo istituito in Mesopotamia un governo all’inglese dove si parla in inglese. Ci sono 450 impiegati inglesi, e non un solo arabo al posto di comando. Quando c’erano i turchi il 70% degli impiegati era reclutato dalla popolazione locale. I nostri 80mila soldati non fanno la guardia alle frontiere ma attendono a servizi di polizia. Premono sul collo della gente. Sotto i turchi nei due corpi d’armata della Mesopotamia il 60% degli ufficiali era arabo e arabo il 95% della truppa».
Ora, fatto salvo il concetto che la guerra, oggi, ha poco a che vedere con il coraggio e la sagacia esaltata per millenni in tutte le civiltà perché è sempre troppo simile a un gioco al massacro; una ulteriore postilla – e con i piedi per terra – si rende necessaria. Si possono infatti vincere le battaglie e perdere le guerre, oppure vincere le guerre e perdere la pace; ma alla lunga si impone sempre il più forte. Si tratta di Realpolitik, come avrebbe detto Machiavelli se avesse saputo il tedesco; e, parodiando in modo banale il succitato Alexander Pope, dobbiamo dire che «whatever is, is». Le cose possono apparire o essere ingiuste o sbagliate, ma il risultato non cambia.
Alla fine del conflitto Lawrence era famoso in tutto il mondo come una star di Hollywood, ma «nell’angoscia di apparire un traditore degli arabi, la sua vita fu ridotta a un’agonia». Lasciò l’esercito e rinunciò alla pensione. Dopo la Conferenza di Parigi si ritirò a Oxford per dedicarsi al suo grande libro e appese le croci di guerra al collo del cane di un amico e maestro. Churchill lo avrebbe voluto con sé offrendogli la carica di viceré delle Indie o di governatore dell’Egitto. Ma Lawrence finì per arruolarsi nell’aviazione, come soldato semplice e sotto falso nome.
Era un asceta, refrattario alle «vanità del mondo», che finì per essere definito dai nuovi retori come un antieroe. Era, in realtà, un eroe – temerario, pragmatico, abilissimo e leale come uno di quei «cavalieri antiqui» che illuminano le pagine degli antichi poemi – e la sua vera casa era il deserto. Dove la sua figura intangibile – Lawrence aveva orrore del contatto fisico – si stagliava idealmente sulla campitura di un assoluto privo di odori e sapori come poteva essere il vento.
In una lettera dell’agosto 1922 a Edward Garnett, lo scopritore di Conrad e il massimo consulente editoriale dell’epoca, disse di aver voluto scrivere un’opera titanica, «come i Karamazov, Zarathustra o Moby Dick», che attingesse le vette del sublime. E I sette pilastri della saggezza rimane la sua più grande vittoria.