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 2019  ottobre 13 Domenica calendario

Intervista a Walter Ricciardi

Quel ragazzino napoletano che prese per mano Stefania Sandrelli sul set di “Io sono mia”, che ne “L’ultimo guappo” venne ucciso scatenando la rabbia e la vendetta del padre Mario Merola, a vent’anni si trovò davanti il bivio della vita. Da una parte il cinema, dall’altra la medicina. Scelse, vacillando un po’, la seconda strada e oggi che di anni ne ha 60 è diventato l’uomo dei 20 miliardi. Walter Ricciardi è da pochi giorni il responsabile del Mission board on cancer europeo che assegnerà quella cifra record a ricerche e progetti contro il tumore. «Non mi sarei mai aspettato di raggiungere in vita mia un traguardo del genere», afferma. E una frase così, detta da chi è ordinario di Igiene alla Cattolica a Roma, ha lavorato per l’Oms e la Commissione europea, è stato presidente di svariate associazioni e soprattutto dell’Istituto superiore di sanità, fa comprendere l’importanza del nuovo ruolo.
L’anno scorso decise di andarsene dall’Istituto in polemica con l’allora ministra Giulia Grillo, insediata da poco. Come mai?
«Ho vissuto con dispiacere il fatto che prevalessero in quel Governo tesi ascientifiche e antiscientifiche.
E non mi riferisco tanto alla ministra quanto ad alcuni esponenti del suo partito e a Matteo Salvini, con le sue posizioni su vaccini e migranti».
Vive come una rivincita il nuovo incarico?
«No, è un ruolo troppo importante per interpretarlo così. Non mi sarei mai aspettato di raggiungere in vita mia un traguardo del genere. Ho avuto tanti riconoscimenti ma, onestamente, pensare di essere alla guida del team più importante della Ue per la ricerca è davvero oltre il prevedibile. Ai gruppi italiani, intanto, dico di farsi avanti, perché da noi ci sono molte persone valide e con la Brexit l’Inghilterra, che ha grandi competenze, non potrà sperare nei finanziamenti».
Come mai l’hanno selezionata?
«È stata fatta una call aperta e mi sono candidato, anche forte della mia passata presidenza della Società europea di sanità pubblica. Le domande erano 500 e siamo entrati in 15. Poi, dopo che ha lasciato il professor Harald zur Hausen, premio Nobel per la medicina, mi hanno chiesto di fare il presidente».
Lei ha alle spalle una sorprendente carriera da attore.
Come è iniziata?
«Da bambino, nel ‘68, finii per caso in un programma, “I ragazzi di padre Tobia”, che si registrava a Napoli. I miei seppero che c’era il provino alla Rai e mi portarono. Poi ho continuato fino alla laurea in medicina. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta ho recitato con Stefania Sandrelli, Alida Valli, Giuliana De Sio, Michele Placido, Maria Schneider e Mario Merola, una persona eccezionale e di cuore che non faceva pesare la sua fama».
Perché ha smesso?
«In effetti c’è stato un momento in cui mi sono detto: quasi quasi vado avanti e faccio l’attore. Diciamo che mi ha fermato uno sciopero.
Studiavo a Napoli ma vivevo a Roma mantenendomi con il doppiaggio. Ci fu lo sciopero dei doppiatori che volevano giustamente essere citati nei titoli.
Durò alcuni mesi e io finii tutti i soldi. Così decisi di fare medico.
Tra l’altro mi mise i bastoni tra le ruote il padre della mia fidanzata di allora, e futura moglie, che era un professore di Medicina a Napoli. Ha cercato massacrarmi in tutti i modi, per mettermi alla prova, ma non mi ha fermato. Mi sono laureato con lode e mi sono spostato a lavorare a Roma».
È stato il primo consigliere della ministra Lorenzin sull’obbligo vaccinale. La cultura antiscientifica di cui parlava prima in Italia è ancora diffusa?
«Di recente ci sono stati dei passi in avanti ma non ci si può accontentare perché rimangono fette importanti di ignoranza e sottovalutazione, che in sanità fanno la differenza tra vita e morte. Sulle coperture dei vaccini ci sono comunque stati miglioramenti enormi».
Che dicono nel resto del mondo riguardo all’obbligo?
«La Francia ci ha imitati praticamente subito, poi è stata la volta della Germania, e adesso tocca alla Gran Bretagna. La stragrande maggioranza paesi del mondo si muove in quella direzione».
Come è vista in Europa e negli Usa l’Università italiana?
«Molto meglio di quanto spesso si dice, perché da noi ci sono professori che fanno un lavoro serio con risorse inferiori di quelle dei loro colleghi di altri Paesi. Il difetto è forse che la nostra Università è troppo lenta ad abbracciare il cambiamento. Ma che siamo bravi lo dice il fatto che all’estero i nostri laureati sono molto richiesti».