Corriere della Sera, 13 ottobre 2019
Morti sul lavoro, come evitarle
«Facciamo un esempio. Se in Italia la mafia ferisse una persona ogni 50 secondi e ne uccidesse tre al giorno, secondo lei che succederebbe? Io immagino migliaia di militari per le strade e tanto altro. E invece per i morti sul lavoro niente, pare che l’argomento non sconvolga nessuno. Eppure i numeri sono proprio quelli: tre morti al giorno e un ferito ogni 50 secondi». Pausa. «Altro dato: gli infortuni ogni anno vanno dai 650 ai 700 mila. Valgono il 2,6% del nostro Prodotto interno lordo: costi sanitari, amministrativi, assicurativi, giudiziari... Sono più o meno quattro finanziarie eppure la politica lo tollera».
Il professor Bruno Giordano dice tutto questo con l’amarezza di chi conosce a fondo il problema ed è a un passo dalla rassegnazione. È un magistrato della Corte di Cassazione, docente di Sicurezza del lavoro all’Università Statale di Milano e, su questa materia, anche ex consulente giuridico del Senato. «La verità – dice – è che il tema della sicurezza non è caro a nessuno. Lo chiamano fenomeno ma per me un fenomeno è una cosa inspiegabile e, al contrario, qui è tutto spiegabilissimo».
Ecco. La spiegazione. Porta con sé una domanda: perché nel nostro Paese i morti di lavoro di questi ultimi anni sono così tanti e per giunta in crescita? Siamo a oltre il 10 per cento in più rispetto al 2016. Quell’anno si è chiuso con 1.018 vittime, il 2017 con 1.029, il 2018 con 1.133 e quest’anno i dati Inail dicono che nel periodo gennaio-agosto sono già morte per lavoro 685 persone (627 uomini, 58 donne).
Una strage continua, silenziosa e dalle proporzioni sempre più grandi, anche se rispetto ai primi otto mesi dell’anno scorso le vittime quest’anno sono 28 in meno. Nel confronto con l’anno scorso la cifra del 2019 è stata in crescita fino a luglio, con i dati di agosto risulta invece in diminuzione perché falsata da un numero di morti eccezionalmente alto nel mese di agosto 2018. Furono 92 (fra loro anche 14 vittime del ponte Morandi), ad agosto 2019 sono stati 52. Numeri che fanno dire alla neoministra del Lavoro Nunzia Catalfo che «è un’emergenza nazionale», che «serve un intervento immediato e strutturale». Lei e il ministro della Salute Roberto Speranza hanno avviato un tavolo di confronto con le parti sociali sull’argomento sicurezza. Parola d’ordine: soluzioni. E ancora una volta si torna a quella domanda: perché si muore lavorando?
«La ragione più evidente è che si muore perché ci sono pochissimi controllori» è convinto il professor Giordano. «Parlo degli ispettori delle Asl. In dieci anni si sono dimezzati, chi è andato in pensione non è stato sostituito, non c’è stata formazione per competenze specifiche. Le sembra normale che in alcune province ce ne siano soltanto due?». Due controllori per cantieri, gastronomie, officine, fabbriche, campi agricoli...
Condivide l’analisi il segretario generale della Uil Carmelo Barbagallo, che aggiunge: «Si muore anche perché nei momenti di crisi c’è più volontà di realizzare profitti e meno attenzione alla sicurezza reale. E poi mi colpisce che risultino irregolarità nell’85 per cento dei controlli». Un clima generale di insicurezza sul quale spesso chiudono un occhio gli stessi lavoratori, preoccupati di perdere il posto se denunciano falle oppure (quando sono loro stessi responsabili delle aziende) più attenti a non rallentare ritmi e produzione piuttosto che a non rischiare un infortunio. «In molti casi sono loro stessi a dimenticare le norme che pure conoscono», considera Leonardo Alestra, generale dei carabinieri alla guida dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl), ente che si occupa prevalentemente di vigilanza contrattuale, contributiva, assicurativa. Il primo gennaio 2017 l’Inl è diventato operativo con 5.673 persone, adesso ne conta 4.938: il 13% in meno.
Il leader della Cgil Maurizio Landini propone «di introdurre una logica di sanzioni e incentivi per le imprese: uno schema simile alla patente a punti che favorisca negli appalti chi rispetta le norme e penalizzi chi non lavora in sicurezza. Si muore come si moriva 40-50 anni fa, è chiaro che c’è bisogno di agire», dice. E sugli ispettori (delle Asl) cita il dato generale: «Mancano 1.500 persone in tutta Italia».
«Sul lavoro si muore per più di un motivo», valuta Luigi Sbarra, segretario aggiunto della Cisl. Fra quei motivi ci sono la mancanza di «prevenzione, formazione, informazione, consapevolezza». E per consapevolezza si intende anche cultura della sicurezza. Si intende, per esempio, che se il muratore o l’antennista vengono a casa nostra per un intervento siamo tenuti a pretendere che lavorino in sicurezza perché in quel momento siamo anche noi i loro datori di lavoro. C’è un dettaglio che mette d’accordo chiunque abbia a che fare con questi argomenti: le morti bianche sono tutte, ma proprio tutte evitabili. Non esiste la fatalità. Lo ripete da anni l’ex procuratore torinese Raffaele Guariniello che chiede una Procura nazionale di magistrati iper-specializzati sulla sicurezza sul lavoro. Le Asl, dalle quali dipende il sistema dei controlli, fanno capo alle regioni e ogni regione è un regno a sé quindi – altro problema – non esistono politiche e tipi di intervento condivisi.
Le norme che abbiamo sono sufficienti, ripetono i magistrati. «Poi però la normativa bisogna applicarla», per dirla con il professor Giordano. E, tanto per cominciare, bisognerebbe emettere i 15 decreti attuativi che ancora mancano (dopo oltre 10 anni) alla legge 81 che nel 2008 fissò le regole per la sicurezza sul lavoro.
Non si può più aspettare. A volte le cronache raccontano che il lavoratore «era al primo giorno di lavoro». Non è raro scoprire che è una bugia, che ha lavorato in nero fino alla morte, affidandosi alla fortuna. Ma come diceva un vecchio slogan pensato per le vittime sul lavoro: «La fortuna non è un dispositivo di sicurezza».