ItaliaOggi, 12 ottobre 2019
L’immane tragedia dei Vajont (9 ottobre 1963) è un’ecatombe lontana che non si rimargina
Vajont. La frana del 9 ottobre 1963, con i suoi 2.000 morti, fu il preannunciato epilogo di una tragedia che già la toponomastica aveva denunciato: come fai a costruire un bacino artificiale quando uno dei suoi fianchi è un monte dal nome Toc, ossia «marcio»? Eppure...Mauro Corona l’altra sera, a Cartabianca, ha chiesto che il Papa o il presidente della Repubblica vadano anche a Erto, dove i morti non mancarono, e che non si ricordi solo Longarone. Ha ragione: io a Erto ci andrei anche solo per mezzo Toscano e una bottiglia di vino assieme a lui a ricordare tutti i morti. E a brindare alla loro memoria sperando che ci sia luce e sia bellissimo, perché sono parenti di tutti gli italiani per bene.
Tra questi mi sono prossimi i Capraro di Longarone. Erano 9 in famiglia, se ne salvarono solo due: una ragazza e Giuseppe, che per noi tutti in Cattolica era vent’anni fa «Padre Vajont» ed era amico mio. Si salvò perché era in seminario a Belluno: gli era rimasta solo questa sorella. Quando l’ho conosciuto combatteva contro un cancro al colon e sorrideva, come quando diceva: «Il medico me l’ha detto: io non morirò di tumore ma d’infarto». E credo sia andata così. E sorrideva, uno che avrebbe avuto tutto il diritto di bestemmiare a voce forte Dio, la vita, il destino o come lo volete chiamare che gli aveva riservato questi drammi.
A noialtri che avevamo sulla ventina d’anni e lo vedevamo dire Messa nella cappella del collegio, parevano storie lontane: invece la Storia ci cammina accanto e dovremmo avere la decenza di non dimenticarla. Voglio farlo anche ora.
L’anno scorso sono stato a Belluno, dovevo incontrare un lettore. Finito il servizio sulla sua Giulia, sono andato verso l’autostrada e un cartello si è materializzato: «Longarone 10». È stato un attimo, poi mi sono detto che questa visita la dovevo a padre Vajont, e sono andato su fino a Fortogna dove c’è il Cimitero monumentale. Ho parcheggiato la Giulietta, c’era quasi nessuno ed era ora di chiusura. Il cielo era grigio, minacciava pioggia. Un gran silenzio.
«Si sbrighi perché siamo in chiusura, io avrei già dovuto chiudere», mi ha detto il guardiano. Gli ho chiesto scusa. E poi: «Ma i morti sono qua?» «No, questo è il cimitero monumentale, sono solo lapidi». Ho superato l’atrio e trovato quest’esercito di lapidi in questo spiazzo ben curato, in ordine. Solo nomi, cognomi, data di nascita. Che cosa si provi non ve lo dico, penso che i giornalisti che chiedono: «Cosa prova?» dovrebbero essere cacciati dai giornali a calci in bocca, ma vi dico solo che mi sono avvicinato alla lapide di una bambina di appena 10 anni. Poi sono rientrato dentro, dove c’è l’esposizione. E un ammasso informe, tra le tante cose, mi ha colpito: era una Fiat Topolino, e so benissimo come sia fatta una Topolino; ma ho dovuto leggere il cartello. Sulla Topolino amaranto dai siedimi accanto, nel quarantasei: Paolo Conte con la Topolino celebrava la vita, questa era l’accartocciato testimone della morte.
A Fortogna, nell’atrio, ci sono delle casse trasparenti. Dentro ci sono piccole, povere cose. Ci sono piatti, servizi di cucchiai di quegli argenti che nelle case della nostra gente sessant’anni fa si esponevano quando una ragazza si sposava e mostrava la dote ai parenti. Quei cucchiai da tenere da conto, per le giornate segnalate e cioè di feste comandate, compleanni, Natali e Pasque col camino acceso e dignitosa povertà. E poi la cassa con gli orologi, stravolta testimonianza della persistenza del tempo.
Un ricordo sul libro degli ospiti, poi nell’angolo in fondo una cosa in una teca ha attirato la mia attenzione: un quadernino di terza elementare. Era di una bambina, avrebbe potuto essere mia figlia. Longarone 9 ottobre 1963, tema: parla della mamma. «La mia mamma è buona, ma quando mi comporto male diventa cattiva e mi picchia». Nove ottobre millenovecentosessantatrè: meditate che questo è stato. Per me, qualcosa di straziante: riposate in pace morti nostri del Vajont, fratelli nostri morti, come scrisse il suicida ingegnere Mario Pancini che quella diga costruì, per una montagna di soldi. Assassina come il Toc. Assassina come l’indifferenza.