Tuttolibri, 12 ottobre 2019
Francesco, il Sultano e Giotto
Saremo giudicati soltanto per l’amore e per le sconfitte e tanto più se le sconfitte saranno rovinose e conseguenza dell’amore. La sbalorditiva vita di Giovanni Pietro di Bernardone, detto Francesco, frate di Assisi, è un capolavoro dell’amore costellato di sconfitte, tutto quanto è stato eretto in sua memoria e sua maggior gloria è un monumento alla sconfitta: un drappello di geni si raduna nella basilica, sono i contabili del tracollo, ogni loro pennellata di magnificenza celeste tratteggia il disastro. Il più illustre, Giotto di Bondone, saprà soltanto all’ultima riga di questo romanzo che ben altro che le stimmate e i miracoli accostano Francesco a Gesù. Gesù oppure Issa Profeta, Messaggero, Messia, Benedetto, il Segno, l’Esempio, lo Spirito venuto da Dio, Servo di Dio, Spirito e Parola di Dio. Figlio di Myriam, ma non figlio di Dio, perché Dio non è generato e non genera. I sufi siedono attorno a Francesco e parlano di Issa, l’altro nome di Gesù. Sono trascorsi ottocento anni, oggi, dall’incontro tra Francesco e il Sultano. Quando tornerà al campo dei suoi, illeso, con la testa ancora sul collo, immune al martirio, tutti quanti guarderanno Francesco con sospetto, la sua salvezza dalla ferocia saracena può soltanto essere frutto della negromanzia o del tradimento.
Le gerarchie ecclesiastiche e militari impegnate in Terra Santa nella Quinta crociata scansano con fastidio il lacero predicatore di Assisi. La fa facile, lui. Con le sue parole di pace, il suo entusiasmo, il suo saltellare gentile. Siccome della guerra non si viene a capo, e si contano i morti, si confortano i moribondi, si custodiscono i feriti, si convive con lo strazio delle carni, i lamenti notturni, lo sfacelo morale, siccome nulla di quello spettacolo crudele e necrofilo ha una sola assonanza con la parola di Cristo, Francesco si è proposto di convertire il Sultano. Senti bello, noi qui abbiamo altro da fare, gli dicono. Finché ce lo mandano, che s’arrangi. Arriva frusto insieme con frate Illuminato, quegli altri non possono credere ai loro occhi, trascinano la coppia sbandata e ridicola davanti al Sultano al-Malik al-Kamil. Perché dovrei credervi e ascoltarvi, voi cristiani, che avete portato le spade e il sangue e la frode in queste terre? Perché non tutti i cristiani sono uguali, dice Francesco, ci sono i retti e gli iniqui, e io sono venuto per chiedere perdono delle iniquità e per parlare di Dio. Il Sultano lo fa ricoverare, lavare, rifocillare, che gli leniscano le ferite. Trascorreranno tre giorni, Francesco e Illuminato, il Sultano e i sufi, a parlare di Dio, usano lingue diverse, ma scoprono di parlare con la stessa, della misericordia, della carità, del perdono, della speranza, della fratellanza, della gioia. I sufi elencano i novantanove nomi di Allah, Colui che provvede, Colui che eleva, Colui che tutto ascolta. Tre giorni in cui nessuno cerca di prevalere sull’altro - si sono riconosciuti, scrive Ernesto Ferrero giunto alla vetta della sua inebriante scalata - e quando Francesco chiede al Sultano di convertirsi, il Sultano dice no, non capirebbero, lo ammazzerebbero, e Francesco nemmeno ha la possibilità di un passo ulteriore, la santità laica, se è permessa l’espressione, è comunque toccata, le convenzioni umane non permettono altro, oltre il moltissimo: si sono riconosciuti.
Giotto torna spesso ad Assisi a guardare i suoi affreschi. Gli sono venuti da incantarcisi davanti: Francesco e il Sultano appostatissimi davanti a un fuoco, Francesco ha sfidato i sufi a entrarci, sarà l’ordalia divina a stabilire dove risieda la ragione. E’ un Francesco spavaldo, sfrontato, padroneggia la tracotanza del Verbo: eccolo il mausoleo della sua sconfitta. Ha vinto la Chiesa della ridondanza che Francesco voleva ricondurre alla santità della polvere. Proprio lì, ad Assisi, dove si è invertita la direzione di marcia, in quello che non è più il paese dove il figlio del mercante ed usuraio si spogliò delle vesti per offrirle in elemosina ai poveri, ora è l’elemosina dei poveri a finanziare la nuova torre di Babele. Non s’era mai vista una commedia simile e similmente repentina di un rinnegamento. Già negli ultimi anni di vita, quando giaceva cieco e spossato, e mormorava i novantanove nomi di Allah - nessun sincretismo, il ricordo di un reciproco riconoscimento, di un soffio di pace nella carneficina - attorno a lui e in nome suo ogni precetto si era ribaltato, i suoi frati si dedicavano alla proprietà fino allo sfarzo, attutivano il digiuno, diradavano la predicazione, erano usciti dal mondo e ne rientravano a calici alzati, la stessa biografia del fraticello - ancora priva dell’ultimo capitolo - spazzava via ogni ambizione puramente evangelica che era la ragione sociale dell’Ordine: Francesco è raccontato asceta, mistico, prodigioso, vendicativo come un Dio dell’Antico testamento, lo si rende «più mirabile che imitabile», lo si sminuzza per farne commercio di reliquie. Francesco è raso al suolo, la sconfitta è totale come l’amore, la stessa sconfitta e lo stesso amore per i quali due uomini si erano riconosciuti.