La Stampa, 12 ottobre 2019
Intervista ad Arturo Brachetti
È Il «glocal» fatto uomo: Arturo Brachetti, estro e disciplina, genio e regolatezza, 40 anni di trasformismo, 62 di età giusto domani, uno degli artisti italiani più noti e amati al mondo, debutto parigino al Paradis Latin, infinite tournée, 5000 volte in palcoscenico, cinque lingue parlate, una galleria di 400 personaggi, 100 ne può interpretare in una sola serata; regista, pure, per Aldo, Giovanni e Giacomo; premio più recente, quello prestigiosissimo del Circolo della Magia di Londra. Ma per lui, il ritorno è sempre a Torino, la famiglia sempre a Corio, nel Canavese, una mamma ancor giovane e bella, tre fratelli molto amati. E casa sua è un luogo incantato dove (quasi) niente è ciò che sembra, tra scarpe luccicanti, cappelli cangianti, raggi di sole perenni, e trompe l’oeil e porte a scomparsa e violini che suonano da soli.
Questa casa è lei?
«Abbastanza. L’ho pensata come uno spettacolo. Da mio padre ho imparato la manualità, lavoro personalmente sui materiali, faccio esperimenti, studio stoffe, carte, microfilati, stampaggi. Continuo a documentarmi, vedo anche 20 spettacoli la settimana, vado alle fiere degli effetti speciali».
Si dice che lei sia maniacale in tutto, pure luci, suoni. E’ così?
«Se non fosse così rischierei molto, per me e per gli altri».
Quarant’anni di carriera: non è stanco?
«Se mi fermo, mi deprimo. Nel 2004 ho sofferto di ansia: era un anno bellissimo, teatri pieni, soldi, successo, ero persino innamorato. Ma non dormivo, mi veniva la tachicardia. Sono andato dallo psicologo, è utilissimo andarci, lo consiglio, e lui mi ha detto: "Hai realizzato i tuoi sogni, sei arrivato in cima alla montagna, e ti chiedi: tutto qui? Allora devi scendere, aspettare che le nubi si diradino, vedrai un’altra montagna e la scalerai di nuovo". Quindi, vivo i miei 62 anni chiedendomi che farò in futuro. Il più bel giorno è nel futuro. E deve ancora venire».
Vuole morire in scena come Molière?
«Certo che mi piacerebbe morire in scena. Magari si apre per sbaglio una botola. O mi cade in testa un sofà. Spesso sogno che mentre sto volando in scena, dalla platea mi sparano e muoio sul colpo, però i macchinisti non se ne accorgono e io continuo a volare, da morto. Ho tante idee in testa: potrei far pagare il biglietto per visitare casa mia, e offrire il tè. Potrei diventare conferenziere per raccontare la bellezza della trasformazione, Arturo racconta Brachetti. O potrei tornare al teatro con un ruolo vero, senza orpelli trucchi sotterfugi, come quando feci Puck nel Sogno di una notte di mezza estate».
Nell’attesa?
«Riprendo la tournée del mio ultimo spettacolo, Solo, il 19 ottobre a Civitanova Marche. Poi giriamo l’Italia, durante le feste saremo al Colosseo di Torino. Stiamo programmando i ritorni in Cina, a New York. Intanto, guardo le serie tv: sono malato di serie tv e Netflix è una droga, e io ho uno schermo da 65 pollici».
Che cosa le piace?
«Le regole del delitto perfetto, Penny Dreadful, The Frankenstein Chronicles, ricostruzioni pazzesche, che il cinema se le sogna, ormai».
Niente di italiano?
«Ma no, amo ascoltare la versione inglese, con i sottotitoli. E amo il ritmo, che la fiction italiana non ha».
Vorrebbe un programma tutto suo?
«Non mi dispiacerebbe fare un Brachetti & Friends. Ne parliamo da tempo, ma non si concretizza mai. Per Sanremo, mi chiamano ogni anno: ma all’ultimo momento. Io all’ultimo momento sono sempre in tournée da qualche parte».
Che cosa le piace dei suoi colleghi giovani?
«Il modo migliore per progredire è vampirizzare il maestro: quando vedo che qualcuno mi vampirizza, gli dò corda. Mi è sempre piaciuto proiettarmi negli altri, inventarmi soluzioni, aiutare chi ha progetti interessanti. Giovani come Luca Bono, Filiberto Selvi, Jacopo Tealdi, le Due e un quarto. Vado spesso nella scuola torinese di Philip Radice, commedia dell’arte, parodia, giocoleria, satira, opere dell’assurdo. Di lì è uscito l’80% degli artisti di strada italiani. Abbiamo dei tesori, e tanti si possono vedere al Music Hall, un teatro che ho ristrutturato e che è una specie di Bignami del varietà».
La creatività?
«E’ un giardino che va seminato e innaffiato».
Lei ha studiato per 6 anni in seminario: ha fede?
«Sono agnostico. Aspetto un segno. Vorrei veramente incontrare qualcuno capace di veri miracoli, ma purtroppo con tutti i trucchi che conosco rimango sempre deluso».
Il suo lavoro prevede una forma fisica perfetta: come fa?
«Genetica, 30%: abbiamo dovuto fermare mia mamma che voleva lanciarsi col deltaplano. Stile di vita, dieta, le mie verdure, il pesce bollito, e la ginnastica, sempre: 40%. L’ultimo 30 %: decidere, con la testa, di avere 20 anni di meno. Infatti non ho amici coetanei, mi parlano solo di prostata».