la Repubblica, 12 ottobre 2019
In morte di Ettore Spalletti
Se al regista Ermanno Olmi, ammesso che sapesse di cosa si trattava, fosse venuto in mente di fare un film su un artista minimalista il suo soggetto non avrebbe potuto essere altro che Ettore Spalletti, scomparso ieri a 79 anni. Spalletti era in un’epoca di globalizzazione selvaggia uno degli ultimi rappresentanti del genius loci, essendo sempre rimasto, pur se conosciuto dai più grandi curatori internazionali, a vivere e lavorare dove era nato nel 1940, Capelle sul Tavo in Abruzzo. Da lì forse non aveva conquistato il mondo, sempre che gli fosse mai interessato farlo, ma sicuramente aveva portato su di sé l’attenzione di un pianeta dell’arte sofisticato e silenzioso che laggiù era andato a cercarlo. Gli artisti italiani invitati alla prestigiosissima Documenta, che si tiene a Kassel in Germania ogni cinque anni, si contano sulle dita di due mani e Spalletti è uno di questi.
Nel 1982 fu invitato dal curatore olandese Rudi Fuchs e nel 1992 da Jan Hoet, curatore belga. La sua arte era un cocktail di Piero della Francesca e Donald Judd. Il suo era un minimalismo mediterraneo dove la perfezione e la precisione lasciavano spazio a qualche meraviglioso e voluto incidente formale sottolineato delicatamente dall’oro.
Maestro di uno Zen prezioso, Spaletti ha patito il fragore selvaggio che ha invaso il mondo e il mercato dell’arte negli ultimi vent’anni. Le sue opere erano al tempo stesso quadri, sculture, oggetti, frammenti del nulla dotato di spazio come Sant’Agostino descriveva il vuoto. Pur vivendo a centoquaranta chilometri da Recanati l’arte di Spalletti sembrava una versione muta della poesia di Leopardi. Dentro i delicati colori che lui usava, lo sguardo dello spettatore si perdeva o naufragava in un infinito di tranquillità.
Nel 1993 Germano Celant invitò Spaletti a una mostra al Guggenheim Museum assieme all’artista Americano Haim Steinbach. Una combinazione solo apparentemente bizzarra. Gli oggetti trovati appoggiati su mensole di brutale formica industriale di Steinbach assieme alle superfici colorate di Spalletti creavano un dialogo unico fra le due anime dell’arte, quella del materialismo delle immagini e degli oggetti e quella della purezza sublime delimitata esclusivamente dai confini del quadro o della scultura. Ma lo Spalletti che ricordo di più è quello che vidi qualche anno fa a Bologna alla Galleria Maggiore dove le sue opere erano messe accanto a quelle di Morandi, un altro genio locale che nella semplicità delle cose aveva scovato un universo. Le bottiglie di Morandi e gli spazi di Spalletti erano come le voci in un duetto fra due soprani. Leggerezza e potenza. Due qualità che solo pochi grandi maestri sono stati in grado di creare e controllare nella storia dell’arte.