la Repubblica, 12 ottobre 2019
Foreign fighter in Siria, ci sono anche 5 italiani
Le bombe del presidente turco Erdogan sulla Siria del Nord produrranno un pericoloso effetto collaterale per tutta l’Europa, dunque, per l’Italia: la fuga dei combattenti dell’Isis, chiusi in prigioni fatiscenti, palestre, palazzetti e campi sempre meno controllati dai curdi, chiamati ora a difendere il fronte. Sono 12 mila i detenuti, 2.200 dei quali – secondo le stime dell’Antiterrorismo – hanno passaporto europeo. Almeno cinque gli italiani individuati. Che presto potrebbero tornare a casa.
Il segnale del rischio imminente lo dà la cronaca: a Qamishli, città del Nord-Est della Siria, vecchi arnesi del Califfato hanno fatto esplodere un’autobomba rivendicando l’attentato. Ad Al Hol, invece, in quella metropoli di capanne e polvere che ospita 76mila donne e bambini, è cominciata la rivolta delle mogli dell’Isis. Ai disordini hanno partecipato, con ogni probabilità, due cittadine italiane. Una si chiama Alice Brignoli, è in quel campo da mesi insieme ai suoi tre figli. Ha 43 anni, viveva a Bulciago, in provincia di Lecco. Quattro anni fa, dopo la conversione all’Islam, insieme al marito Mohamed Koriachi aveva raggiunto lo Stato Islamico. Voleva trasformare i suoi figli in soldati. Tre giorni fa, attraverso una Ong impegnata nel campo, ha fatto sapere ai nostri servizi segreti esteri di volersi costituire e tornare in Italia. L’altra “Lady Jihad” italiana di Al Hol è la padovana Meriem Rehaily, 23 anni, madre di due bambini piccoli, una condanna di quattro anni del tribunale di Venezia.
Di Maria Giulia Sergio non si hanno notizie da due anni, forse è morta in battaglia. Invece la trevigiana Sonia Khediri, che aveva 17 anni quando partì per la Siria, è stata avvistata nel campo di Ain Issa, con i suoi due bambini. Anche Meriem e Sonya si dicono pentite. «Si tratta, però, di situazioni molto delicate: chi si trova in questi campi è disperato, con la dissoluzione dello Stato islamico ha perso ogni copertura», spiega una fonte dell’intelligence italiana. «Non sempre sono pentimenti sinceri: la pericolosità potrebbe ancora essere alta». Ecco perché vengono prese con molta cautela tutte le dichiarazioni dei prigionieri europei. Come quella dell’italo marocchino Mounsef Hamid Almukha-iar, partito nel 2015 con il mito della «guerra santa contro i crociati», e che ora ammette di «aver sbagliato tutto».
Il caso “italiano” non è però il più preoccupante. O meglio: il tema che in queste ore sta allarmando i servizi è più ampio, e riguarda tutta l’Europa. Come detto, l’invasione voluta da Erdogan potrebbe favorire il ritorno di più di duemila reduci europei dell’Isis: hanno documenti comunitari, se riescono a raggiungere i consolati in Iraq possono prendere l’aereo. Oppure tentare la via di terra. Il campo “prigione” più grande sta a Tel Abyad, città curda teatro finora degli scontri più sanguinosi. L’Italia non rischia tanto per i suoi combattenti di ritorno – i foreign fighter partiti o con legami con il nostro paese sono 142, di cui 48 sono morti – ma per una questione logistica. Il canale più facile – come tra l’altro testimoniano i viaggi di altri jihadisisti, compresi gli attentatori del Bataclan – per muoversi dalla Siria all’Europa, è il corridoio via mare che porta dalla Turchia alla Grecia. E da qui all’Italia. Nel giugno scorso i poliziotti dell’Ucigos sono riusciti ad arrestare in Siria, con la collaborazione delle forze curde, Samir Bougana, italo marocchino che per quattro anni aveva combattuto con l’Isis. Ma era un’altra “era”. Non c’era la guerra al nord. I curdi riuscivano a tenere a bada i duemila europei legati alla Jihad che ora, le bombe turche, rischiano di liberare.