L’ossessiona o le pesa un cognome così importante?
«Non mi ossessiona, ma so che è ingombrante. Non è facile esserne all’altezza. Quello che hanno compiuto mio padre e mia madre, Franca Ongaro, è stato pionieristico. Se a 40 anni dalla chiusura dei manicomi resiste la legge che cambiò quel panorama di dolore e di abiezione lo si deve a loro».
Quarant’anni fa lei cosa faceva?
«Mi ero laureata all’università con una tesi sulla storia dei bambini in manicomio dall’Ottocento a oggi. Scelsi l’istituto veneziano di San Clemente dove venivano rinchiuse, appunto, le donne e i bambini».
Era un modo di stare nella scia dei genitori?
«Certo, anche se il mio interesse era per un aspetto sconosciuto e drammatico dell’infanzia. Ho consultato centinaia di cartelle cliniche con diagnosi raccapriccianti: bambini disturbati, menomati, epilettici, indigenti, imbecilli, cerebropatici, idioti, affetti da turpiloquio. Un’infanzia mai risarcita per i diritti fondamentali di cui erano stati privati».
La sua infanzia, invece, come la ricorda?
«È stata speciale nel vero senso della parola. Io e mio fratello Enrico siamo nati a Venezia. Ci trasferimmo con il resto della famiglia a Gorizia, quando mio padre cominciò la sua straordinaria avventura professionale nel manicomio della città».
Che anno era?
«Il 1961, avevo 6 anni. Bisognava decidere dove abitare. In quanto direttore dell’ospedale mio padre avrebbe potuto farci vivere in un appartamento ricavato all’interno del manicomio. Per ragioni di opportunità scelse il palazzo della sede della Provincia e avemmo così a disposizione un intero piano, l’ultimo. Il primo impatto fu curioso».
Perché?
«Più che un appartamento sembrava un grande ufficio. Ricordo il lungo corridoio, con le stanze una in fila all’altra. Le grandi finestre, il soffitto altissimo. Insomma non era una vera casa. Però io e mio fratello potevamo muoverci in totale libertà in quegli spazi enormi. Ogni tanto compariva qualche matto».
In che senso compariva?
«Era iniziata la demolizione del manicomio. I pazienti erano più liberi e molti di essi potevano anche uscire. Alcuni suonavano al nostro campanello. Salivano, curiosavano. Ricordo la signora Pierina, mi faceva una gran paura. Sembrava la strega di Biancaneve. Poi col tempo la paura divenne una forma di disagio verso quel mondo alieno e infine di consapevolezza. Mi sentii come Mowgli nella giungla, parte di quel mondo misterioso, reietto e offeso».
Vissuto come qualcosa di anormale o di eccentrico?
«Chi siamo per decidere chi è normale e chi non lo è. In fondo, tutto il lavoro di mio padre è stato riconoscere all’anormalità il diritto ad essere normale. Certo, non posso dire che la mia fosse una famiglia tradizionale».
Cosa le ha insegnato?
«A non fermarmi alla prima impressione, a non essere condizionata dal pregiudizio. Insomma a vivere e a pensare con un buon margine di libertà».
Senza imposizioni dunque?
«No, le regole c’erano eccome».
Per esempio?
«La televisione era bandita. Prima ancora che Pasolini lanciasse il suo anatema, mio padre la riteneva una fabbrica di conformismo. Devo dire che, in certi momenti, ne ho sofferto la mancanza».
Quando?
«A scuola le mie amiche vedevano Carosello, ascoltavano il Festival di Sanremo, condividevano slogan e canzoni. Io e mio fratello niente. Alla fine di nascosto andavo dalla mia amica Fulvia, figlia del portinaio, che la televisione l’aveva».
L’alternativa erano i libri.
«Sì, ma con qualche handicap che mi trascinavo dall’infanzia».
Cioè?
«A due anni mi fu diagnosticata una malattia agli occhi dal nome strano: "coloboma". È un’anomalia oculare, diciamo pure una malformazione che condiziona enormemente la vista. Fino a provocare in molti casi la cecità».
Però lei vede.
«Ho un campo visivo limitatissimo. Lei accennava ai libri: mi sono fatta aiutare nella lettura da altri e poi ho tentato di leggere con l’impiego di lenti speciali. Una risorsa sono stati gli audiolibri».
La malattia come è stata vissuta in famiglia?
«Non come un handicap. In fondo i miei pensarono che tra il coloboma e una patologia mentale non ci fosse una grande differenza. Non nel senso che non esistesse una specificità, ma che andassero affrontate senza considerarle un impedimento. A due anni mi portarono da un grande oculista a Ginevra e il responso fu negativo. Una volta cresciuta mi sarei potuta disperare, considerare diversa. Ma sono stata lasciata libera di decidere il mio modo di vedere. Ho imparato a sciare e a giocare a basket, non rinunciando quasi a nulla. Ecco, era la mia anormalità resa normale».
Come ha agito questo nelle sue scelte di vita?
«Senza danni collaterali. Un matrimonio e poi la separazione, una figlia antropologa, un lavoro che mi ha impegnato nel sociale, alcune storie che ho scritto, come Le nuvole di Picasso, e poi la Fondazione dedicata ai miei. Credo che tutto quello che ho fatto sia la dimostrazione di che cosa sono stata io per loro e loro per me. Trattata come se il problema non ci fosse e non perché si facesse finta di niente. Ma non doveva diventare un impedimento. Ho imparato a vedere in altro modo».
Gli impedimenti non sono solo fisici.
«Che intende?».
Ha lavorato per più di trent’anni al comune di Venezia e poi se ne è andata.
«Sono stata spinta ad andarmene. Non l’avrei fatto se l’ambiente improvvisamente non mi avesse fatto sentire inutile, un’intrusa. Mi ero occupata della partecipazione giovanile ai nuovi progetti e della violenza contro le donne. Due temi che si continuano a dibattere. Eppure avevo la sensazione di essere diventata superflua. Non ho voglia di polemizzare. Semplicemente tra me e la nuova giunta c’erano punti di vista differenti. Andarmene ha giovato, oltrettutto, alla mia salute mentale».
Anche suo fratello ha seguito le tracce familiari?
«Lui ha scelto di occuparsi di storia, ha scritto sulla Venezia del Cinquecento e fa il traduttore. Ci siamo rispettati e riconosciuti uguali, una dentro e l’altro fuori dalla Fondazione».
Se avesse potuto avrebbe fatto altro nella vita?
«Mi sarebbe piaciuto occuparmi di fisica o matematica. Non so quasi nulla di numeri però mi affascinano quasi più delle persone».
È la reazione al disordine mentale del mondo?
«Forse, ma è un grande ordine quello dei numeri? Ho sempre pensato, forse sbagliando, che la matematica sia il confine tra la grande razionalità e la grande follia».
Per tornare alla follia vera, quando suo padre se ne occupò furono gli anni del cambiamento.
«Quando, agli inizi degli anni ’60, iniziò a lavorare a Gorizia e poi a Trieste, c’era lui e pochi assistenti».
Chi ha conosciuto tra i suoi amici?
«La nostra casa era frequentatissima. Tutto il movimento dell’antipsichiatria passò dal suo studio di papà. Ricordo David Cooper. Mi fece impressione questo signore enorme con una gran barba e sempre su di giri. Aveva un’aria trasgressiva. Mentre Ronald Laing, anche lui esponente di punta dell’antipsichiatria, esibiva una tranquillità e un modo di parlare molto british. A volte capitava Michel Foucault. Era molto attratto dall’esperienza di mio padre e dalla necessità di smantellare le grandi istituzioni della follia».
Com’era nei suoi riguardi?
«Credo non avesse nessun interesse verso me e mio fratello. O almeno l’impressione è che fosse tutto concentrato sull’esperienza di mio padre. Vedeva in lui l’attitudine pratica e non solo teorica, a lavorare sugli effetti del potere psichiatrico. Altri personaggi che venivano a trovarci erano Giulio Bollati e Dario Fo, due che hanno lasciato il segno».
In questi incontri che ruolo aveva sua madre?
«È sempre stata una colonna fondamentale. A prescindere dall’affetto e dall’amore, il loro è stato un rapporto professionalmente intenso. Le cose più importanti le hanno scritte assieme. E sono convinta che Franca Ongaro abbia arricchito il mondo di Franco Basaglia. Ricordo che lavoravano e discutevano fino alla nausea».
Notava delle differenze?
«La principale credo fosse che lui era molto immediato e lei piuttosto riflessiva».
Com’era suo padre nell’ambiente domestico?
«Teneva fede a quella immediatezza di cui dicevo. Amava molto i rigattieri e riempiva, senza pensarci più di tanto, la casa di cianfrusaglie. Da uno dei suoi numerosi viaggi riportò una statua di chiesa, molto ingombrante. Deposta a terra sembrava una nana con delle spalle larghe. Poi le facemmo una pedana. Era tutta d’oro e vestita di rosso. La battezzammo la signora Lucia, somigliava alla nostra insegnante di inglese. Un’altra volta portò un Cristo di legno dal Sudamerica che per via delle braccia larghe chiamammo "il Cristo dei vigili"».
Per fortuna la casa era grande.
«Non ha idea di quanta roba ci fosse dentro: mobili di sagrestia, oggetti esotici, canne d’organo che mio padre giustificò con il fatto che la mamma da ragazza aveva suonato l’organo in chiesa!».
Nel 2020 saranno trascorsi 40 anni dalla morte di suo padre. Che ricordo ha degli ultimi tempi?
«Non amo parlarne perché credo che ognuno abbia diritto alla propria intimità. Ho però la certezza, in quei mesi in cui stava male, di aver recuperato tutto quello che non avevo avuto a causa dei suoi impegni. Come può intuire non è stato un padre molto presente».
Cosa vuol dire recuperare un rapporto?
«In quei momenti si smette di fingere, vengono giù le maschere, questo è il significato più vero».
Dove è sepolto?
«A San Michele, nella tomba di famiglia, che chiamo la casetta. A me fa orrore l’idea della tomba di famiglia. Molto meglio un prato. Ricordo il funerale con un sacco di gente e gli amici che cercavano di nascondermi dalle televisioni e dai giornali. Sulla tomba c’è scritto solo nome e cognome. Niente ammonimenti o frasi a effetto».
Di sua madre, scomparsa quindici anni fa, che ricordo conserva?
«Il rumore della Lettera 22. Il loro studio era accanto alla stanza dove io dormivo. E sentivo lei battere sui tasti della macchina. Per anni dopo la sua morte non riuscivo ad addormentarmi senza quel ticchettio familiare. E ancora adesso penso a quel ritmo che sembra giungermi da un’altra epoca».