Robinson, 12 ottobre 2019
Sulla mostra di Wes Anderson alla Fondazione Prada
Ci vuole molta pazienza ma anche un po’ di fiuto per trovare tra i 593 pezzi esposti nella mostra Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori il sarcofago stesso, e già la ricerca fa parte delle emozioni che questa favolosa raccolta suscita nei visitatori, i più stupefatti i tanti asiatici. Perché il preziosissimo reperto non è come uno se lo immagina, misurando infatti 11,4 x 11,6 x 21 centimetri: una scatolina di legno dipinta risalente al tardo periodo tolemaico, per contenere la mummia, meglio la mummietta, di un toporagno, forse antichissimo trastullo egizio di cui altro non si sa. Per chi eccede in porsi domande, Spitzmaus non è il nome di un fortunato archeologo, ma quello in tedesco di questo mammiferino. Alla Fondazione Prada il regista americano Wes Anderson e la sua compagna, la scrittrice- disegnatrice anglo-libanese Juman Malouf, illustrano 5000 anni di vita sulla terra e non solo (c’è pure la fetta sottile di un meteorite di qualche miliardo di anni fa), con una raccolta già esposta a Vienna e adesso a Milano arricchita di altre preziosità (fino al 13 gennaio). Vita stupendissima quella dei due non specialisti, belli e fortunati, colti e famosi, con migliaia di follower su Instagram: hanno avuto più di due anni per trovare una storia inedita da raccontare, visitando le 12 collezioni del Kunsthistorisches Museum e le 11 del Natural History Museum viennesi, quelle esposte e soprattutto quelle adagiate su morbidi cuscini nel buio tombale degli immensi depositi; 4 milioni e mezzo di oggetti tra cui perdersi e perdere volendo anche la ragione.
Quelli scelti dal duo di massimo chic, che ha eletto a capolavoro assoluto il minisarcofago cui il museo viennese non dava tanta importanza, splendono adesso con il loro mistero in un allestimento per niente museale nel padiglione Podium: una specie di appartamento fatato, con un intreccio di corridoi e stanze senza porte né finestre, senza un inizio e una fine o un percorso cronologico prestabilito: una specie di gioioso labirinto domestico di cui non si vorrebbe mai trovare la soluzione, sempre più immersi in un eccitato stupore. Soprattutto se ti trovi subito in una specie di nursery imperiale con ritratti di bambini cinquecenteschi, tanto nobili quanto minacciosi nei loro rigidi costumini da adulti: dall’imperatore Ferdinando II a 4 anni, già munito di spadino con antipatico cagnolino a fianco, autore ignoto, alla bruttissima duchessina Cristina di Baviera con le orecchie a sventola. Stiamo penetrando in una mostra non di specialisti del ramo ma d’artista, anzi di doppio artista, quindi per niente riposante perché obbliga a chiedersi continuamente cosa è quella cosa là e perché si trova lì, e a capire poi che si tratta di provocazioni per obbligare il pigro visitatore a creare legami e a inventare connubi, a usare la fantasia e a osare un pensiero: infatti quella coppia giocosa e forse dispettosa, responsabile di tanta apparente confusione, ha accostato nelle lucenti vetrine, per esempio una maschera Kagura ottocentesca a un paio di scarpette da ballerina di velluto di seta del 1880, un’arma Maori a un portasigarette 1932 di un club viennese scomparso, qualche malachite tirolese al Ritratto di uno studioso di Giovanni Girolamo Savoldo su tavola di legno, 1520. Perché? È un enigma che chi vuole può tentare di risolvere, se no pazienza, ogni reperto esposto è così bello o curioso, orribile o insensato, da affascinare solo a guardarlo, come fosse il brandello di un sogno. O ovviamente di un incubo. Certo, quando nei due musei viennesi i diversi curatori chiusi nei loro rigidi settori hanno capito cosa volevano fare i due artisti, sono precipitati nel panico: le mostre solitamente riguardano un periodo, una corrente, un artista, un secolo, ecc. Ma questi irrefrenabili entusiasti sono lui l’autore di film così brillanti ( I Tenenbaum, Grand Budapest Hotel) da spaventare gli spettatori meno preparati; lei l’autrice di deliziose illustrazioni a penna di libri ( The Trilogy of Two) e ancor più nota per entusiasmare Vogue col suo vestire vittoriano e per aver creato il mitico cappotto di pelliccia indossato da Tilda Swinton in Grand Budapest Hotel.
Wes e Juman hanno destituito i gelosi curatori legati alla rigidità dei loro compiti. Come affidare tesori a due apparentemente incoscienti e rinunciare alla sicurezza, alla protezione di un capolavoro insostituibile come L’elettore di Sassonia, malinconico ciccione di Tiziano? O all’autoritratto di Sofonisba Anguissola del 1554? Dei tesori accumulati sin dal XVI secolo dagli Asburgo, sono in mostra 180 pezzi, compresa la custodia secentesca della corona di Rodolfo II d’Asburgo, che però, non si sa mai, il museo viennese si è tenuta ben stretta, essendo d’oro con decori di perle e pietre preziose. Ma poi ci si perde dietro il maiale di rattan proveniente dalla Nuova Guinea, l’elmo a muso di volpe per l’imperatore Ferdinando I d’Asburgo, la famosa bomba a mano Orsini, simile a quella usata da Felice Orsini nel 1858 per assassinare, senza successo, Napoleone III, il dipinto di un cervo deforme di anonimo (1663) prima di essere ucciso da Ferdinando Carlo d’Austria, uno Pteroctopus Tetracirrhus del Mediterraneo pescato nel 1830, e avanti così, di batticuore in batticuore; fin quando si resta attoniti davanti ai quadri di anonimo tedesco attorno al 1580 che rappresentano, elegantissimi e con lo sguardo disperato, Petrus Gonsalvus, la figlia Madeleine e un figlio quasi infante, tutti e tre affetti da irsutismo, con le facce pelose. Subito, passato l’angolo, tra tante meraviglie molto freak, il grande ritratto (266,8 x 165,5 cm), del gigante Bartlmä Bona con il super nano Thomele che con l’alto cappello non gli arriva al ginocchio.
Mostra difficile da dimenticare soprattutto per l’ironia con cui trasforma la bruttezza in assoluta bellezza, la bizzarria in saggezza, l’ignoranza in sapienza. Se no c’è il catalogo, naturalmente d’artista, che nulla ha a che fare con i tradizionali catalogoni museali da tavolino: si tratta di una scatola setosa color rame che contiene: a) una cartelletta nera con foto delle vetrinette invase dagli oggetti; b) una cartelletta gialla con trascrizione della conversazione di sapienti che visitano la mostra; c) un piccolo libro rosso con l’elenco di tutti i tesori, scritti di Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, del curatore associato Marco Mainetti e di Jasper Sharp del museo viennese, disegni di Juman Malouf, fotografie di alcuni oggetti; d) un enorme foglio piegato a quaderno con le immagini di tutti gli oggetti esposti; e) una scatola verde che contiene 25 cartoline, due diapositive, una busta viola con ricetta speciale dedicata alla mostra, di biscotti di mandorle farciti. Un gioco dell’oca, un rebus, un puzzle? Un altro tesoro? Forse, comunque al prezzo di euro 184 alla Fondazione e al suo sito web, 230 in libreria.