Robinson, 12 ottobre 2019
Edgar Allan Poe o il mestiere della postilla
Per arrotondare i suoi bilanci, Edgar Allan Poe collaborò spesso e malvolentieri a ogni tipo di giornale e gazzetta: talmente malvolentieri che negli ultimi anni della sua vita cullò il progetto, regolarmente fallito, di fondare un giornale tutto suo. Scrivere sui giornali sopra qualsiasi argomento implicava per lui due aspetti spiacevoli: l’onere della documentazione e dell’informazione ( spesso surrogato da disinvolti plagi), e quell’attitudine al “mestiere” che non tutti gli scrittori hanno ( «scrivere sulle gazzette ha fatto di me un facchino», lamenterà Jack London).
Per questo Poe si inventò una formula che gli permettesse di riempire a intervalli regolari colonne e colonne senza annoiarsi e senza doversi preoccupare della coerenza o della tenuta strutturale del pezzo: i Marginalia.
Pretese dunque ( mentendo due volte) di aver sempre avuto l’abitudine di postillare i propri libri, e di essere in possesso di una ricca biblioteca leggibile o rileggibile a partire da quelle postille, che con un procedimento di autocitazione e auto antologizzazione avrebbe pubblicato come «offerta» ai lettori ( il baudelairiano coeur mis a nu, se è vero che «nei Marginalia parliamo solo a noi stessi, dunque parliamo con freschezza – audacia – originalità – conabandonnement... » ). Come si vede, l’operazione è programmaticamente capricciosa e provocatoria, anche perché, alla maniera di Sterne, prevede la pubblicazione delle note senza più alcun riferimento al testo/ contesto, secondo l’assioma per cui, si dichiara nell’articolo proemiale ( Democratic Review,novembre 1844), «il nonsenso è il senso essenziale della Nota a Margine».
Leggendo questi Marginalia nella nuova edizione di Adelphi (che tuttavia tanto nuova non è, riprendendo l’edizione Theoria del 1994, sempre tradotta da Cristiana Mennella e già accompagnata dall’estroso saggio di Ottavio Fatica) sembra di poter distinguere con una certa facilità le postille autentiche da quelle inventate da Poe al momento: le prime inevitabilmente più brevi, le seconde più estese e con un passo più saggistico, quello che autorizza l’autore a collocarsi nell’alveo di un’illustre tradizione che annovera i nomi di Thomas Browne, Robert Burton e Samuel Butler. Quasi tutte, però, esibiscono un tono caustico- satirico, come a voler censire un flaubertiano «sciocchezzaio» : a farne le spese è soprattutto la boria (o la complementare pusillanimità) di certi critici e l’ambizione degli scrittorucoli, «gnomi capaci di crearsi una reputazione positiva semplicemente a forza di continui e ininterrotti appelli al pubblico».
Per contro, leggiamo pagine illuminanti sulla grandezza di Shelley, di Dickens, di Tennyson, di Hawthorne, anche se stupisce la profilassi con cui un teorico e un critico così analitico si esime dall’indagarne troppo a fondo i segreti: se è vero infatti che «vedere con chiarezza il meccanismo – rotelle e pistoni – di qualunque opera d’arte è di per sé un piacere», è altrettanto vero che questo stesso piacere riflesso ci impedisce di godere dell’«effetto legittimo perseguito dall’artista», cioè di un tipo più immediato di piacere. Particolarmente interessanti alcune osservazioni di carattere generale e per così dire propedeutico, come il rilievo dato alla punteggiatura («Che la punteggiatura sia importante trova tutti d’accordo; però come son pochi quelli che arrivano a comprendere quanto!») e alla rima («L’effetto che si ricava da una rima ben controllata viene compreso in maniera assai approssimativa» ), soprattutto quando la rima si collochi dialetticamente all’intersezione fra previsione e sorpresa («la rima perfetta si ottiene solo combinando i due elementi, Uguaglianza e Imprevedibilità»).
Ma Poe? Il Poe nero? Sembrerebbe soffocato e nascosto dall’ingombro della satira sociale e del battibecco letterario, ma a cercar bene lo si trova. Per esempio quando confessa che le sue pagine più visionarie e deliranti nascono dalla sottrazione volontaria all’abbandono che precede il sonno e che è già gravido di sogni: «Sono arrivato a evitare la caduta dal punto di cui parlo – laddove si mescolano sonno e veglia – a evitare, dico, a piacimento, la caduta da quel territorio di confine nelle regioni del sonno. Non che io sia in grado di prolungare tale condizione – di rendere il punto più che un punto – sono però in grado di passare di soprassalto da quel punto alla veglia – e di trasferire in tal modo il punto stesso nel regno della memoria – di trasmetterne le impressioni, o più esattamente le rimembranze, a una situazione ove io possa esaminarle con occhio analitico».
Dunque, è probabile che quanto è scritto in molti Racconti sia stato per un attimo visto, secondo una dinamica non molto diversa da quella descritta da Lovecraft per la trascrizione dei suoi incubi. Così, fondando l’analisi e la scrittura sulla memoria di ciò che per un attimo ha voluto farsi vedere da noi, Poe può ritrovare la sua voce più vera. «Chi ha davvero mai visto nient’altro che orrore nel sorriso dei morti?» chiede retoricamente, e incalza: «Vi sono momenti in cui, persino al freddo occhio della ragione, il mondo della nostra triste umanità non può che assumere le sembianze dell’Inferno». E contro ogni umanesimo, contro Montaigne e contro Whitman, ci rinvia tutti a un libro non rilegato in pelle umana, come il Necronomicon di Lovecraft, ma nel ferro delle spade e delle catene: «Avere piena dimestichezza con il cuore umano vuol dire apprendere la nostra lezione finale dal volume della Disperazione, rilegato in ferro». L’ultima puntata dei Marginalia apparve sul Southern Literary Messenger del settembre 1849; pochi giorni più tardi, il 7 ottobre, Poe moriva a Boston dopo tre giorni di delirio.