Con un romanzo che avvolge in crescendo (grazie anche alla bella traduzione di Matteo Galli), la pronipote Katharina Adler, classe 1980, restituisce il caso alla letteratura. Questa volta il nome della bisnonna è quello vero: Ida. Nata a Vienna nel 1882, morta a New York nel 1945, Ida attraversa la prima metà del secolo breve toccata dal patriarcato, dalla cultura ebraica, dalla psicoanalisi e dal socialismo. E, quattordicenne, dalle mani smaniose del signor K., l’amico di famiglia, la cui moglie, signora K., è l’amante del padre.
Ida, il romanzo, è frutto di studi documentati su una storia di famiglia chissà quante volte ascoltata dall’autrice e in quante varianti. Ida, la paziente (cioè Dora), è invece la diciottenne che causa molti grattacapi al viennese: lingua tagliente, famiglia complicata, irritabilità, tristezza e pensieri di suicidio. Ma soprattutto una catena d’inciampi nel proprio corpo: afonia, tosse, svenimenti, mal di pancia. Quella «compiacenza somatica», scriverà Freud, «che procura uno sfogo organico ai processi psichici inconsci». La «formazione sostitutiva» di ciò che è rimosso e privato della parola: il sintomo.
I Bauer abitano in Bergasse a pochi passi dal “dottore”, a quel tempo non ancora famoso. La terapia dura tre mesi, il tempo di interpretare due sogni, condurre svariate incursioni, impensabili per l’epoca, nella sessualità (presunta) di una ragazza, commettere parecchi errori ma gettare semi fecondi per il futuro della psicoanalisi. Come l’insinuarsi di una consapevolezza: la paziente se n’è andata perché l’analista ha trascurato di analizzare un ingrediente essenziale della terapia, il transfert. Più ancora, direi, il controtransfert. Che dire del fatto che Freud sceglie per la sua giovane paziente lo pseudonimo Dora, nome fittizio che la cameriera di sua sorella deve sostituire al proprio, Rosa, perché così già si chiamava la sorella di Freud?
II padre di Ida è proprietario di un’industria tessile, la madre è una casalinga scontenta, il fratello Otto sarà un capo della socialdemocrazia austriaca nel periodo tra le due gueiTe. A 21 anni Ida sposa Ernst Adler, aspirante compositore. «Mia figlia ha sposato un cavallo da cir- co!», dirà la madre. «Uno di quelli che si adornano con le piume e si esibiscono in pezzi di bravura ma non hanno mai imparato a tirare la carretta». In effetti Ernst finirà a lavorare nell’azienda del suocero. Dal matrimonio nasce Kurt, che è direttore d’orchestra e persino assistente di Toscanini a Salisburgo nel 1936, ma presto deve riparare, in fuga dal nazismo, negli Stati Uniti.
Il romanzo ci presenta Ida come una donna arguta e vivace, un formicaio di ricordi e una certa difficoltà a entrare in sintonia con gli altri. Un «accordo dissonante», dice il figlio. Che, quarant’anni dopo l’uscita a testa alta da Bergasse, risuona nel luogo più impensato e lontano da Vienna: un party a Chicago in una villa di artisti. «Dietro di lei si continuava a discutere. Ida afferrò la parola “sogno” e poi un’altra ancora, quasi non credeva alle sue orecchie». Una cantante mondana dice di «avere appena cominciato una analysis e di trovarla fantastic», impossibile non conoscere il «professor Freud» ! Le orecchie di Ida iniziano a fischiare: «Non avrebbe mai creduto che l’ombra del dottore si sarebbe allungata fino all’altro continente».
Oltre alla psicoanalisi, un’altra eredità pesa sulle spalle tutto sommato solide di Dora/Ida: il femminismo. Orgoglioso del gran rifiuto, fa di lei l’eroina che si ribella al patriarcato e alla diagnosi” misogina” di isteria. Ne hanno parlato in tante, per esempio Hélène Cixous in Ritratto di Dora come simbolo della «rivolta silenziosa contro il potere maschile sul corpo e il linguaggio delle donne». Torniamo al romanzo. In uno dei capitoli più belli, l’autrice ci accompagna nella stanza affumicata dal sigaro e carica di interpretazioni sessuali. Nonostante sia per lui un «continente nero» ( così definirà la sessualità femminile), Freud procede sicuro, troppo sicuro, alzando la posta di seduta in seduta: Dora sarebbe un vulcano di desideri rimossi per il padre, per il signor K., per la stessa signora K. Lo psicoanalista non riconosce il trauma, non capisce le donne, ma le loro storie iniziano ad affiorare. Se il dito indica l’isteria, la luna, per chi la sa vedere, sono le oppressive convenzioni sociali e i pregiudizi culturali che da sempre accompagnano la loro sessualità. Giusta, dunque, l’idea dell’autrice di inserire nel romanzo brevi pagine dal Frammento, la cui bellezza narrativa, carica d’invenzioni teoriche, fa da controcanto al racconto della vita di Ida e del suo fantasma Dora. Una fiction al servizio dell’altra. Condannata, ma anche liberata, Ida è comunque ascoltata: «Almeno questo. Di solito invece aveva la sensazione che tutti la interrompessero».
A Katharine Adler non interessa smentire o approvare il metodo freudiano. Lei vuole restituire alla vita una storia. Anzi molte, quante sono le vite di Ida: la ragazzina molestata, la figlia ribelle, la vedova resiliente, l’anziana madre che ritrova il figlio oltremare. Storie segnate dai silenzi trafitti dai colpi di tosse di Ida, dalle rabbie orgogliose di Dora e dalla tenacia sperimentale di un metodo pericoloso.
Oltre alla psicoanalisi, un’altra eredità pesa sulle spalle tutto sommato solide di Dora/Ida: il femminismo. Orgoglioso del gran rifiuto, fa di lei l’eroina che si ribella al patriarcato e alla diagnosi” misogina” di isteria. Ne hanno parlato in tante, per esempio Hélène Cixous in Ritratto di Dora come simbolo della «rivolta silenziosa contro il potere maschile sul corpo e il linguaggio delle donne». Torniamo al romanzo. In uno dei capitoli più belli, l’autrice ci accompagna nella stanza affumicata dal sigaro e carica di interpretazioni sessuali. Nonostante sia per lui un «continente nero» ( così definirà la sessualità femminile), Freud procede sicuro, troppo sicuro, alzando la posta di seduta in seduta: Dora sarebbe un vulcano di desideri rimossi per il padre, per il signor K., per la stessa signora K. Lo psicoanalista non riconosce il trauma, non capisce le donne, ma le loro storie iniziano ad affiorare. Se il dito indica l’isteria, la luna, per chi la sa vedere, sono le oppressive convenzioni sociali e i pregiudizi culturali che da sempre accompagnano la loro sessualità. Giusta, dunque, l’idea dell’autrice di inserire nel romanzo brevi pagine dal Frammento, la cui bellezza narrativa, carica d’invenzioni teoriche, fa da controcanto al racconto della vita di Ida e del suo fantasma Dora. Una fiction al servizio dell’altra. Condannata, ma anche liberata, Ida è comunque ascoltata: «Almeno questo. Di solito invece aveva la sensazione che tutti la interrompessero».
A Katharine Adler non interessa smentire o approvare il metodo freudiano. Lei vuole restituire alla vita una storia. Anzi molte, quante sono le vite di Ida: la ragazzina molestata, la figlia ribelle, la vedova resiliente, l’anziana madre che ritrova il figlio oltremare. Storie segnate dai silenzi trafitti dai colpi di tosse di Ida, dalle rabbie orgogliose di Dora e dalla tenacia sperimentale di un metodo pericoloso.