Nella casa di Aquileia, dove il disordine del mondo sembra restare fuori della porta, Altan guarda alle scadenze celebrative con lo stesso sguardo disincantato di un Bigazzi o di un Cipputi: «Ci tocca affrontare anche questa». Le sigarette mettono un punto ai pensieri che fluiscono per frasi brevi, poco inclini alle discese delle subordinate. Ogni tanto sembra di sentire la voce rassicurante dell’Armando, che le storie le fa finire sempre bene. Chi sia il vero Altan resta un mistero. Mai chiedere ad Altan cosa sia un Altan, suggerisce Benni in una proverbiale poesia. Però forse questa volta qualcosa gli sfugge, attraverso la voce d’un bambino di Bassano.
Come spiega la coincidenza di mostra, libri, film? Non c’è neppure il pretesto dell’anniversario a cifra tonda: mancano tre anni all’ottantesimo compleanno.
«Appunto: non me lo spiego. Se non con le parole profetiche che mi disse tantissimi anni fa Alberto Breccia, un grande disegnatore argentino pluripremiato: non è gloria, ma vecchiaia».
Nelle sue vignette non ce n’è traccia. Lei sente l’età che avanza?
«No. Finché riesco a lavorare non sento il tempo. È cambiato tutto fuori di qui, ed è cambiata la mia vita, ma quando disegno non avverto il peso degli anni. E poi quando ero giovanissimo mi ero messo in testa che sarei morto a 28 anni in una pescheria di Rotterdam. Tutto il resto è grasso che cola».
Scusi, perché una pescheria? Poi a Rotterdam!
«Non ne ho la più pallida idea».
La vecchiaia le ha regalato qualcosa?
«Sì, mi ha dato la calma. Le angosce della giovinezza sono passate. Io avevo paura del mondo in generale, non una paura specifica. Era un sentimento di inadeguatezza ad affrontare le cose della vita. Ora ho capito che più o meno ce la faccio».
Sua moglie Mara sostiene che queste sue antiche paure hanno a che fare con la figura di suo padre, un intellettuale esigente come Carlo Tullio-Altan, insigne antropologo.
«No, non credo che dipenda da lui, ma dal modo in cui sono fatto».
Com’era il suo rapporto con suo padre?
«Abbiamo vissuto insieme solo nella primissima infanzia, anche se era molto preso dal suo lavoro. Poi a otto anni i miei si separarono e i rapporti si sono molto diluiti. Verso i quattordici abbiamo ripreso a frequentarci: gli piaceva spiegarmi tantissime cose. Però mancava quella parte affettiva che viene dalla consuetudine quotidiana».
Forse per questo quando lei è diventato padre ha inventato l’Armando. Un papà straordinario che non spiega mai, ma c’è sempre.
«Può darsi. La Pimpa è nata insieme a mia figlia Francesca e la figura dell’Armando incarna una paternità molto distante da quella che io avevo vissuto da figlio. Ma parliamo di processi inconsapevoli».
Senza quelle paure giovanili forse non avremmo avuto Altan.
«Quando uno ha paura si nasconde da qualche parte. E io mi sono nascosto nel disegno trasferendovi anche i mie fantasmi».
Non sembra casuale la scelta di intraprendere una strada lontana da quella paterna.
«Non lo escludo. Mio padre era tecnicamente incapace di leggere i fumetti, non riusciva a spostare l’occhio dal fumetto alla figura. E da bambino me ne aveva proibito la lettura durante l’anno scolastico: allora era considerato un genere diseducativo. Però alla fine siamo arrivati a parlare delle stesse cose. I suoi studi sugli italiani — sul familismo amorale, sulla mancanza di senso dello Stato, sull’individualismo sfrenato — mi hanno aiutato molto nel mio lavoro. E quindi direi che dopo un lungo viaggio ci siamo ritrovati. È finita abbastanza bene».
Lei li disegna da cinquant’anni. Cosa ha capito degli italiani?
«Capito mi sembra troppo. Ma c’è una vignetta che dice: “Gli italiani sono un popolo straordinario. Vorrei tanto che fossero un popolo normale”. Era stato mio padre a suggerirmela».
Le sue vecchie storie a fumetti pubblicate su Linus negli anni Settanta ci dicono che il mondo è sempre stato sbagliato, anche in passato: mi riferisco alle storie di Colombo, Casanova, Franz San Francesco.
«La mia impressione è che non sia mai esistita un’età dell’oro. Scelsi quei personaggi perché mi aveva sempre colpito il modo in cui ci venivano raccontati a scuola: con semplicità e nitore. Senza una macchia. E forse inconsapevolmente volevo restituire loro tutta la sporcizia che era stata mondata. Alla loro epoca le strade erano di fango, non di marmo».
Gli schizzi sono più evidenti nella figura di Colombo, un ometto pavido che gli indios compatiscono.
«Ero appena tornato da una lunga esperienza in Brasile che aveva spostato il mio sguardo sul piano geopolitico. La prima volta che mi vide nella redazione di Linus Oreste Del Buono mi scambiò per un brasiliano: parlavo poco e avevo la pronuncia portoghese».
Com’era Del Buono?
«Un formidabile organizzatore, capace di dare al fumetto quella dignità culturale che in Italia mancava. Ma non lo definirei un uomo buono».
Forse una dose di ferocia è insita in chi fa e ama la satira. Anche se lei sembra essere un’eccezione, caratterialmente più prossimo al mondo della Pimpa.
«Nei fumetti e nelle vignette racconto il mondo come è, nelle storie per bambini come dovrebbe essere. E io appartengo al mondo reale».
Che effetto le fa rileggere quelle storie a fumetti quarant’anni dopo?
«La prima cosa che penso è che oggi non ne sarei capace. Non avrei la stessa energia. Comportavano un’immersione totale che mi teneva sveglio tutta la notte. Come all’inseguimento di un filo narrativo che non mi lasciava tregua».
In quelle storie nasceva il mondo di Altan. La viltà e la vanagloria del potere, i soprusi, il protagonismo arrogante: come se non avesse mai smesso di raccontare l’umanità in tutte le sue bassezze.
«Sì, ma con una premessa fondamentale. Io faccio parte di quell’umanità. Non me ne tiro fuori. Quel tipo di tentazioni ce le abbiamo tutti. Poi c’è chi tenta di resistere e chi ci sguazza. Ma tutti siamo tentati».
Non è una differenza da poco.
«È la responsabilità di essere di sinistra: contrastare i bassi istinti e tenerli a bada. Perché ci sono valori fondamentali come l’eguaglianza, la fraternità, la giustizia sociale. E bisogna fare fatica a rimanere fedeli a queste priorità».
Lei in fondo è rimasto uno dei pochi elementi identitari della sinistra. Guardando le sue vignette ci si sente un po’ meno soli.
«Questo sì, sono convinto che l’effetto più importante del mio lavoro sia far sentire le persone meno sole. È una cosa che mi sento ripetere spesso: come se le vignette esprimessero una sorta di comune sentire che infonde coraggio e fa compagnia».
Non è mai stato iscritto a un partito politico.
«No, con una sola eccezione. Avevo 16 anni e il circolo monarchico organizzava festine niente male».
Immagino che lei appartenga al popolo che dal Pci ha inghiottito fedelmente il boccone amaro fino al Pd. Mai una volta la tentazione di astenersi?
«Mai. A me votare piace molto. Mi sembra una cosa bellissima da fare».
Come sta Cipputi?
«Ci vediamo un po’ meno di una volta. È nato in un periodo molto distante dall’attuale. E anche la classe operaia è cambiata molto. Non sappiamo nemmeno più per chi vota».
Le è mai venuto il dubbio che Cipputi possa aver votato Lega?
Per la prima volta il tono di Altan diventa assertivo, come mai era capitato di sentirlo prima.
«Questo non mi è mai passato per la testa. Solo che è rientrato dietro le quinte. Anche se ogni tanto lo vado a chiamare per questioni importanti che riguardano la Costituzione».
Questo governo come lo vede?
«Non lo vedo. Ma ho tirato un sospiro di sollievo.
È una creatura strana, ma non c’erano alternative. Come un test che non preveda risposte multiple, ma una sola obbligata».
Questo è un periodo felice sul piano dell’ispirazione?
«Sì, con un limite: quando ci sono queste stagioni di crisi, i politici fanno e disfano tutto da soli, incluse le battute via twitter».
Si caricaturizzano da soli.
«Appunto. E devi stare attento a fare una cosa diversa. Mi sono accorto che per Repubblica ho disegnato otto vignette di seguito con dentro Salvini. Non mi era capitato neppure con Berlusconi. Questo significa che non puoi fare a meno di vederli perché non c’è altro. E allora vuol dire che siamo messi malissimo».
Da cosa capisce che una vignetta funziona?
«Quando il testo è breve e dice qualcosa. Più corto è, meglio è».
Lo mostra a Mara?
«No, preferisco farle la sorpresina. Perché magari lei mi smonta l’idea».
Come lavora per il quotidiano?
«Con Repubblica ho un rapporto privilegiato. Io spedisco la vignetta che mi sento di fare quel giorno e non sono obbligato a seguire dei temi suggeriti dalla redazione. Questo è un grandissimo vantaggio».
Ma come le viene l’idea? Esiste un metodo Altan?
«Se esiste è inconsapevole. Uno impara a sintonizzare l’orecchio con quello che sente intorno e a capire dove ci sono stonature, parole ripetute troppo spesso, frasi fatte che vengono servite a tutti ogni mattina. E da lì viene lo spunto più importante».
Perché dice che è un lavoro più di pancia che di pensiero?
«Perché con il passare degli anni mi sento più sicuro non di quello che penso ma di quello che sento. E reagisco».
A quale personaggio del suo cast si sente oggi più vicino?
«Alla Luisa, la moglie che cucina mentre il marito dice stupidaggini».
Le capita mai di ridere alle sue battute?
«Al massimo sorrido. Mi è sembrato insolito sentite Mara e mia figlia Francesca ridere mentre selezionavano le vignette per la mostra del Maxxi».
A proposito della mostra. Se scoppiasse un incendio quale delle vignette porterebbe in salvo? Non mi risponda quella più vicina all’uscita…
«Sceglierei quella vignetta che dice: “Uno nasce, e poi muore. Il resto sono chiacchiere”».
Qual è la cosa più bella che si è sentito dire?
«Mi è capitato di recente, in una scuola di Bassano del Grappa. Un bambino ha detto all’amichetto, indicandomi: Quello lì è bravo, però è gentile».
Continua a sognare in modo avventuroso?
«C’è un sogno ricorrente, che faccio da svariati decenni. Sogno di cadere da una montagna. Ma un tempo sognavo di precipitare da un cucuzzolo delle Ande e non facevo tempo a sfracellarmi sul manto boscoso perché mi risvegliavo in un bagno di sudore. Invece oggi cado, rimbalzo per poi discendere gioiosamente attraverso i ghiaioni».