Corriere della Sera, 11 ottobre 2019
Intervista a Vincenzo Nibali
«Mi sento un marinaio che naviga a pedali per 35 mila chilometri l’anno. In bici vedo il mondo sempre più soffocato dalla plastica. Sto con i ragazzi che manifestano per l’ambiente perché nessuno tranne loro sembra preoccuparsi del nostro destino».
Tra un mese Vincenzo Nibali compirà 35 anni, il suo tachimetro segna quasi mezzo milione di chilometri, il curriculum è già quello del più forte ciclista italiano dei tempi moderni: ha vinto due Giri d’Italia, Tour e Vuelta salendo 11 volte sul podio. Ha conquistato la Milano-Sanremo, due Lombardia e 50 altre corse. Ora cambia squadra: dagli emiri del Bahrain agli americani della Trek-Segafredo.
Vincenzo, le sue preoccupazioni per lo stato dell’ambiente sono recenti?
«La bici è un osservatorio perfetto del traffico, dell’inquinamento: la situazione è drammatica. Trovi plastica ovunque. La politica dovrebbe imporre regole diverse ai produttori».
La politica per lei è…
«Importante. Non mi schiero, ma penso che un politico – come un atleta – non possa affrontare sfide decisive carico di odio per gli avversari e cercando la rissa. Sono per chi fa politica rispettando il prossimo e senza urlare».
Altro tema caldo, l’immigrazione.
«La mia Sicilia è terra di emigrati, io ho lasciato l’isola a 16 anni per fare il ciclista e mio nonno partì in nave per l’Australia dove lavorò cinque anni come muratore per costruire casa a Messina. Sono per accogliere chi scappa da guerra o fame, mi chiedo se per aiutare queste persone si debba far rischiare loro la vita sui barconi e perché l’Europa non ci dia una mano».
Torniamo indietro nel tempo: 15 febbraio 2005?
«Debutto da professionista al Trofeo Laigueglia, in Liguria, a 21 anni. Caddi malamente in discesa ma arrivai al traguardo. Sintesi della mia carriera: si cade ma ci si rialza».
11 aprile 2005.
«La prima Liegi-Bastogne-Liegi, una delle corse più belle e dure. Dietro di me c’era solo l’ambulanza. Arrivai ultimo a 17 minuti dal vincitore».
Una delle poche grandi corse che non ha vinto. Nel 2012 fu 2° dietro al kazako Maksim Iglinskij, che pochi mesi dopo si rivelò dopato.
«Non provo rancore. Non penso mai che un mio avversario possa essere dopato, anche se su di lui ci sono sospetti: non avrei la serenità per sfidarlo. Ha vinto, forse era pulito. Poi si è dopato e l’hanno cacciato. In questi casi c’è una cosa importante da fare».
Quale?
«Distinguere l’errore dalla persona e non criminalizzare nessuno. Danilo Di Luca, che è stato mio compagno di squadra, è un dopato recidivo che ha meritato una lunga squalifica. Ma era un uomo e un capitano generoso e resta un amico anche se si è fatto travolgere dalla smania di guadagnare. Rispetto a quando ho cominciato vedo meno gente predisposta al doping».
Le corse più dure della sua carriera?
«La Liegi del debutto, il Giro delle Fiandre 2018 e poi la tappa del Gardeccia del Giro 2011: 8 ore in bici, disumano».
Gli avversari più coriacei?
«Froome e Contador».
La salita più dura?
«Lo Zoncolan, in Friuli».
Il momento più difficile?
«Il 2018, quello della caduta al Tour de France provocata da un tifoso maldestro».
Sarebbe salito sul podio?
«Non è quello il punto. Col passare degli anni il corpo assorbe peggio le brutte cadute, la posizione in bici si modifica e fai fatica a trovare quell’equilibrio che ti garantisce di andare forte. Quando l’ho ritrovato ero felice».
In 15 anni lei ha corso in quattro squadre con filosofie totalmente diverse.
«Ho cominciato con Fassa e Liquigas: tradizione, serietà e cultura italiana. Grande scuola. Poi l’Astana che mi ha lanciato con la vittoria al Tour e la Barhain che è stata un’apertura verso il mondo arabo. Ora la Trek Segafredo: un misto di Italia e Usa. Una bella sfida».
Sua figlia Emma ha già cinque anni.
«Novembre è il mese in cui stiamo più assieme: tra gare e ritiri passo oltre 200 notti fuori casa e io, lei e mia moglie ci vediamo solo via Whatsapp. È dura. Emma sta imparando le lettere dell’alfabeto e scriverle con lei su un foglio di carta è un’emozione che nemmeno immaginavo».
Cosa le manca della Sicilia da cui è partito a 16 anni.
«Il mare sullo sfondo».
E delle sue corse di ragazzino tra Sicilia e Calabria?
«Nulla, sono momenti di una vita che continua».
I suoi idoli nello sport?
«Non ne ho mai avuti».
Mai tifato?
«Di certo non per il calcio. Ho sempre seguito con interesse i motori. I duelli tra Rossi e Biaggi sono stati il massimo del mio tifare».
Cosa farà tra due o tre anni quando smetterà?
«Non lo so. Non il direttore sportivo: non ne ho né le qualità né il carattere. Piuttosto il manager. Un sogno segreto ce l’ho, ma non lo dico».
Domani disputerà il suo 12° Giro di Lombardia.
«Corsa meravigliosa: le strade, la gente, le “foglie morte” a bordo strada che si vedono per davvero».
Ha visto l’ultimo Mondiale, la sconfitta bruciante di Matteo Trentin nel finale.
«Purtroppo sì. Negli ultimi chilometri avrei scommesso qualunque cifra su Matteo. Ma il ciclismo è anche questo: perdi quando meno te l’aspetti, perdi quando sei o pensi di essere il più forte».
Quanto tempo ci vuole per digerire una batosta del genere?
Il cambio Correrò
con la Trek Segafredo, misto di Italia e Usa, bella sfida nell’anno dei Giochi di Tokyo
«Molto tempo. Ma alla fine passa tutto».
Il prossimo anno l’attendono due grandi sfide: Mondiale e Olimpiade.
«E almeno altri 80/90 giorni di corsa con la maglia del club. Tra poco metteremo mano al calendario: non sarà facile con così tante gare».
In bici, purtroppo, si muore e ci si fa male, sempre più. Consiglierebbe a un ragazzo di fare il ciclista?
«Traffico, rotonde ma sopratutto disattenzione: l’abuso del telefono è spaventoso. Ai ragazzi dico: imparate con Bmx e mountain bike. Vi tenete lontano dai pericoli e sviluppate la tecnica».