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 2019  ottobre 11 Venerdì calendario

La lotta di Natalia Goncharova

La prozia di Natalia Goncharova era una delle donne più belle di Mosca e il poeta nazionale russo, Alexander Puskin, morì in duello per lei, sfidando quello che credeva il suo rivale, un immigrato francese. Era un’altra Russia: aristocratica, classista, ormai matura. A Natalia toccarono i resti di questo grande romanzo nobiliare: nacque a Tula nel 1881 e di lì a poco la nazione sarebbe stata scossa dai primi fermenti di rivolta, non solo sociale: anche l’arte mostrava segni di insofferenza e le Avanguardie dei primi del ‘900 scalpitavano nella ricerca di nuove parole, simboli, combinazioni. 
Il merito della mostra di Palazzo Strozzi (anche grazie alla sensibilità di una delle curatrici, Ludovica Sebregondi) sta nell’aver cristallizzato Natalia Goncharova nella sua personale rivoluzione, artistica e sentimentale, raccontandola dagli anni Dieci alla fine degli anni Venti e relegando il teatro e la moda a brevi tocchi interessanti, sì, ma meno importanti dei dipinti. E dunque facendone un piccolo romanzo di lotta e di colore. Cominciamo dalla lotta: in una foto del 1913 Goncharova ha il volto coperto di segni. «Body art futurista – spiega Sebregondi —: Natalia e altri se ne andavano in giro per Mosca declamando versi osceni». Con lei c’era già Mikail Larionov, futuro marito e sodale. 
Ma chi era Goncharova nel 1913? Figlia di un’aristocrazia impoverita ma pittrice già apprezzata, diremmo  famosa (Serge Diaghilev diceva di lei: «Si trascina appresso Mosca e Pietroburgo»). Aveva esposto nelle mostre più importanti e, l’anno prima, chiamata da Kandinsky, pure nella collettiva di Monaco del Cavaliere Azzurro. Ma era una donna. E il suo nudo del 1910, La dea della fertilità(«Peraltro ispirato alle figure matriarcali», dice la curatrice) le costò un processo per pornografia. 
Eppure non era quella la vera lotta di Natalia, come si intuisce passeggiando per le sale di Palazzo Strozzi. La sua sfida più ardua era ingaggiare un corpo a corpo con la cultura russa e farne uno stile universale, lontano dalla visione localistica. Come aveva fatto Kandinsky che, partendo dagli sciamani siberiani, era arrivato all’astrazione. E come farà Chagall, che coglierà la visione più fiabesca delle sue radici ebraiche per inventare un alfabeto nuovo. Goncharova assorbe tutto: la lezione dei Fauves, l’esotismo di Gauguin, il tratto perfetto di Matisse – bellissimo il nudo del francese in mostra. 
Più tardi il marito definirà «tuttismo» questo suo sguardo allargato, che vuole unire la Francia e la Russia, i grandi movimenti a cavallo tra Otto e Novecento e le sue contadine severe, abbigliate di pizzi rustici. E anche quando la coppia si trasferirà definitivamente a Parigi dopo la rivoluzione d’Ottobre, la Russia di Natalia continuerà a raccontare corpi irrobustiti nel lavoro nei campi, di signorine per bene vestite di bianco contrapposte alle contadine ingoffate dalle numerose gravidanze. E così, poco per volta, affiora una sensazione: in un modo o nell’altro tutti ci siamo stati in quel Paese diseguale e arcaico. Appartiene a tutti noi quel senso di sottile disagio che si prova nell’abitare un posto amatissimo eppure ostile, pronto a ripudiare i suoi figli in virtù di leggi lontane, vecchie, inflessibili. Come quelle che regolano la raffigurazione dei santi, appunto: un’altra lotta di Natalia è stata quella ingaggiata nella riproduzione dei personaggi sacri, contravvenendo al principio per il quale una donna non può dipingere le icone. I suoi Evangelisti (in mostra) vennero considerati troppo «contaminati» dall’Avanguardia e sequestrati nel 1913, quando l’artista venne processata per blasfemia. 
Ma è stato proprio in questo duello con il «proibito» che Goncharova ha affinato una personalità precisa, nata dal realismo più che dall’ottimismo miope dei primi del secolo. Realismo che permea anche i lavori «futuristi»: il suo Ciclista del 1913 sembra correre da fermo, come se un destino cupo lo inchiodasse a un movimento inutile. Preveggenza? Forse solo pragmatico senso di appartenenza ad un mondo che potrebbe disgregarsi all’improvviso. 
Certo, ne ha viste tante. Due cose però non hanno fatto in tempo a stupirla: una tomba «a tre», nella quale ancora oggi in Francia riposa accanto al marito e all’amante di lui (poi futura moglie) e la censura che qualche settimana fa è toccata (ancora!) ad un suo nudo. Stavolta la legge russa non c’entra: è stato Instagram a ritenere quei seni inadeguati alla rete. E lei, Natalia, starà ridendo da qualche parte.