Corriere della Sera, 11 ottobre 2019
Il teologo che traduce la Bibbia
CITTÀ DEL VATICANO «Vede, credo sia anzitutto una questione di giustizia. È giusto che ogni persona che lo desideri possa leggere la Parola di Dio nella sua lingua del cuore, la lingua madre, e non in un linguaggio estraneo o magari coloniale».
Alexander Markus Schweitzer, 55 anni, teologo nonché musicista e studioso di canto gregoriano – Benedetto XVI lo chiamò nel 2008 come esperto al Sinodo sulla Parola di Dio – è direttore esecutivo del Bible Ministry e direttore della Global Bible Translation. In poche parole, è l’uomo che si preoccupa di risolvere un problema: delle 7.100 lingue parlate sulla Terra, più di 3.700 non hanno alcuna traduzione delle Scritture.
Per la precisione «la Bibbia intera è stata tradotta in 700 lingue, poco più di 1.500 hanno il Nuovo Testamento e altre 1.100 solo alcune parti, dai Salmi ai Vangeli». Il lavoro non manca, considerato che «per una traduzione ci vuole molto tempo», spiega il professor Schweitzer al Corriere: «Se tutto va bene, per il Nuovo Testamento si richiedono dai tre ai quattro anni e per l’intera Bibbia sette-otto».
Non importa da quante persone sia parlato un idioma. L’anno scorso le Società bibliche («lavoriamo con tutte le confessioni cristiane») hanno contribuito a tradurre i testi sacri in 66 lingue parlate da 440 milioni di persone. Tra le traduzioni della Bibbia c’erano lingue come Rote (parlata in Indonesia da 30 mila persone), Malto (India, 51 mila), Kalanga (Botswana, 142 mila) o Lusamia-Lugwe (650 mila in Uganda e Kenya). Tra le versioni del Nuovo Testamento quelle in lingua Lemi (Myanmar, 12 mila parlanti) e Blin (Eritrea, 112 mila).
Anche al Sinodo sull’Amazzonia si sta affrontando la questione delle lingue indigene. Tradurre la Bibbia può tutelare idiomi in estinzione?
«Può essere un effetto, ma non è questo lo scopo principale», chiarisce il teologo. «Per noi l’essenziale è che sia la comunità cristiana locale a volere una traduzione e sia coinvolta nel lavoro. Non approviamo un atteggiamento coloniale, da “primo mondo” che decide per gli altri, l’obiettivo non è completare per forza tutte le lingue del mondo. Il nostro lavoro si svolge con le chiese locali, si formano traduttori nella lingua madre».
Del resto «il compito di gettare un ponte tra l’ebraico o il greco antichi e le lingue più remote del presente – magari non esistono equivalenti di “redenzione” o “perdono” – è un lavoro immenso, con gruppi di traduttori, e non finisce mai», considera Schweitzer: «Lingue e culture si evolvono. Si tratta anche di ritradurre: un’antica versione liturgica non si può proporre ai ragazzi di oggi».