La Stampa, 11 ottobre 2019
La Sanità brucia 20 miliardi in servizi inutili
Nella sanità sempre alle prese con problemi di bilancio ogni anno il 20% dei fondi, oltre 20 miliardi di euro, se ne vanno in spese che non portano alcun beneficio ai pazienti. Circa 6,5 miliardi si sperperano per servizi e prestazioni non necessari o per curare gli effetti avversi da diagnosi eccessivamente tragiche e conseguente sovrabbondanza di trattamenti. Come nel caso dei test per scoprire il tumore alla prostata negli anziani, che a una certa età restano latenti e non danno problemi ma che se scoperti danno il via a cicli di trattamenti che non allungano di un mese la vita. Al contrario, 3,2 miliardi prendono il volo per il peggioramento delle condizioni di salute degli assistiti provocato dalla mancata erogazione di cure invece necessarie. Vuoi per il tappo delle liste d’attesa, vuoi per i ticket troppo cari sugli accertamenti diagnostici o la paura delle Regioni di finire in rosso. Seguono poi i soldi gettati tra frodi e abusi, acquisti dai costi eccessivi, mancato coordinamento nell’attività di assistenza. Un panorama sconfortante che Asl e Ospedali stanno cercando di ribaltare integrando meglio i servizi ai cittadini e digitalizzando la sanità, malgrado la penuria di investimenti.
A fornire il quadro è una ricerca condotta da Fiaso, la Federazione delle Aziende sanitarie e ospedaliere e l’Osservatorio E-Healt, che ha elaborato anche i dati della Fondazione Gimbe sulla spesa sanitaria improduttiva. Alla quale si sta cercando di porre un freno riorganizzando i servizi.
Prima di tutto è salita all’85% la quota di ospedali che lavorano in una rete detta hub & spoke, dove le strutture non in grado da sole di gestire i casi più complessi (spoke) fanno riferimento agli ospedali super-specializzati (hub). Rivoluzione già in atto anche in corsia, dove quasi la metà dei nosocomi ha detto addio ai vecchi reparti suddividendo i posti letto per intensità di cura. Che non significa cancellare i dipartimenti, come oncologia o chirurgia, ma farli lavorare in team e in reparti organizzati a seconda del livello di assistenza da garantire ai ricoverati, affidando maggiori compiti organizzativi agli infermieri professionali, lasciando ai medici diagnosi e cura.
Sempre più estesa anche la creazione di pool multispecialistici per seguire pazienti fragili e cronici lungo il percorso di cura, garantendo il supporto non solo del medico specialista per la singola patologia, ma anche psicologi, fisioterapisti, infermieri specializzati. Poi c’è la questione dell’integrazione socio-sanitaria. Che detta così dice poco, ma che significa garantire dopo il ricovero al paziente cronico e non autosufficiente la contemporanea attivazione a domicilio sia l’assistenza sanitaria sia quella sociale. Ossia qualcuno in grado di aiutare nelle cose pratiche di tutti i giorni. Circa un quarto delle Asl riesce a farlo e rispetto a qualche anno fa è un progresso non da poco.
Innovazioni che rientrano nell’agenda di quella che i tecnici chiamano Value Based Healcare, il sistema di valutazione del rapporto costo-beneficio delle prestazioni, capace di impedire quello sperpero da 20 miliardi l’anno. Solo che per fare tutto ciò serve spingere sulla digitalizzazione della sanità, alla quale viene destinato appena l’1,4% delle risorse. Eppure, come ricorda il presidente di Fiaso, Francesco Ripa di Meana, «big data, intelligenza artificiale e app mobile possono veramente supportare l’attività dei medici e la ricerca». Da qui la richiesta di incentivi e agevolazioni per gli investimenti nell’innovazione digitale, che promette meno sprechi e cure migliori per i cittadini.