la Repubblica, 11 ottobre 2019
Nella casa-bunker del killer neonazista
Ha sbattuto contro l’ultima porta chiusa della sua vita: quella della sinagoga piena di ebrei che solo per caso non è riuscito a massacrare. Stephan Balliet si è però trasformato nel mostro di Halle chiudendosi prima alle spalle tutte le porte della realtà. Barricandosi infine nel network globale dell’estrema destra xenofoba e antisemita: l’unico ad avergli virtualmente aperto le braccia, per accoglierlo nell’odio condiviso della sua follia. Questo rifugio è il brandello estremo di realtà che fino a mercoledì mattina lo ha connesso con il mondo. Si trova al secondo piano di una casetta a schiera con i gerani rosa e le orchidee bianche sul balcone. Il numero 2 di Strasse des Aufbaues è a Benndorf, 2.500 abitanti, poco meno di un’ora di auto dal luogo scelto per la strage dello Yom Kippur. Una villetta normale, tra i prati e i pali per stendere la biancheria al sole: Stephan ha vissuto qui gli ultimi 13 anni. O meglio: qui si è sepolto vivo fino all’istante in cui è riemerso dalla sua camera da letto e dalla sua cantina, partendo per la missione di «uccidere più non-bianchi possibile, preferibilmente ebrei». Da tempo aspettava isolato, assieme alla madre Claudia Pleyer, maestra elementare a Helbra, cittadina tre chilometri più in là: le colleghe di scuola la descrivono «sempre sorridente e gentile».
Ad Helbra, civico 12 di Voigt Strasse, vive invece il patrigno Roland Balliet, tecnico di impianti tivù. È stato lui a insegnare il mestiere al figlio della ragazza-madre divenuta sua moglie. «Anni fa Stephan ha subìto un intervento allo stomaco – dice rincasando accompagnato dalla polizia – e non è stato più in pace con il mondo. Sempre al computer, chiuso, ostile, senza amici: non riuscivo più a comunicare con lui». In quello che sarebbe diventato il suo bunker di Benndorf, Stephan arriva adolescente, quando madre e patrigno si separano. Frequenta le superiori nella vicina Eisleben, dove è nato. A Lipsia tenta invano la facoltà di Chimica. «È sempre stato strano – dice Peter Gurtler, compagno di classe – e violento. Odiava le ragazze. Un giorno pestò uno studente e fu sospeso. Aveva il culto dei muscoli, gli stavamo lontani». Chiusa la porta dell’università, si chiude anche quella dell’esercito. Stephan cerca invano di arruolarsi. «La madre era disperata – dice Petra Boesche, che vive sotto ai Balliet – sosteneva che nessuno voleva suo figlio e che qualcuno si sarebbe pentito». Alla notizia del bagno di sangue sfiorato, Claudia Pleyer si è sentita male. Prima del ricovero in ospedale ha però affidato la sua verità al vicino Bernd Detsch. «Al mattino Stephan mi ha chiesto di lasciargli il pranzo sulla tavola. Quando sono uscita per andare a scuola mi ha salutato e ha detto “ci vediamo stasera”, come sempre».
La polizia, che ha sigillato la casa, indaga proprio su questa apparente normalità familiare. L’anti-terrorismo la definisce «inverosimile». La Ford Fiesta grigia della maestrina di Helbra è ancora parcheggiata all’esterno, sotto le finestre del soggiorno. Dentro, l’edificio di Benndorf sta invece rivelando i laboratori in cui Stephan Balliet ha tentato di emulare il suprematista bianco della strage di Christchurch. «La madre cucinava come se nulla fosse – dice un agente della polizia informatica – mentre già il ragazzo aveva pianificato e spiegato l’assalto ad Halle. Sui siti di estrema destra erano visibili le armi che si era costruito, procurandosi pezzi ed esplosivo per corrispondenza». Arsenale e laboratorio hi-tech del mostro sono una sorpresa. Il primo viene scoperto in cantina, il secondo nella stanza da letto di Stephan, dove «nessuno poteva entrare». «Madre e figlio erano sempre fuori – dice la vicina Gisele Wiegand – i corrieri lasciavano grossi pacchi nel giroscala. Pensavamo che fossero i ricambi per il lavoro da antennista del ragazzo». Per gli investigatorierano invece computer, armi ed esplosivi ordinati online: gli attrezzi del mestiere di chi ha deciso di eliminare «tutti quelli che minacciano i bianchi di estinzione».
Dal lindo bunker dell’auto-ribattezzato «Anon», figlio «affettuoso e obbediente alla madre», affiorano origine e conseguenze del male che lo ha spinto ad essere il primo, dalla Notte dei cristalli nazista del 1938, a sparare contro una sinagoga nel cuore dell’Europa. Il file di 10 pagine, in cui spiega perché si sente chiamato «a dare sostegno morale agli altri bianchi oppressi», è datato 1° ottobre e viene trovato sul laptop accanto al suo letto. I kit per armi e chili di esplosivo, sono quelli ripresi nella cantina. «Oltre ai 35 minuti di video con le immagini dell’assalto – dice il capo della scientifica in serata – stiamo scoprendo come oggi si costruisce un incensurato terrorista neonazista che vuole colpire in diretta social». Il problema è capire come uno psicopaticoborderline, in un paese della Sassonia-Anhalt, possa trasformarsi in «un mix di antisemitismo, xenofobia e razzismo» armato fino ai denti, pronto al massacro senza che nessuno se ne accorga o riesca a fermarlo. «Viveva online – dice il patrigno Roland – e odiava il mondo che non ha trovato un posto per lui: la multinazionale del neonazismo è stata l’unica realtà a dargli ragione e a farlo sentire utile».
Una casetta con il tetto rosso in un quartiere modello della piccola borghesia tedesca dell’Est, capace di abbattere il Muro. All’interno una maestra e suo figlio, tecnico di 27 anni. Stephan non è solo un pazzo mutato in mostro. Quel buio nasconde un prodotto umano storicamente noto e sempre più comune. È stato lasciato ricrescere: non si può più negare di saperlo.