Giampiero Mughini per Dagospia, 10 ottobre 2019
DUE LIBRI, UN ASSASSINIO - MUGHINI: ''ENRICO DEAGLIO, EX DIRETTORE DI "LOTTA CONTINUA" E SODALE DEL TERZETTO DI MILITANTI DI LC CONDANNATI PER L'UCCISIONE DI LUIGI CALABRESI, OGNI VOLTA CHE PRONUNCIA IL NOME DEL COMMISSARIO È COME SE SI NETTASSE LA BOCCA - MARIO CALABRESI NON RIFERISCE UNA SOLA VIRGOLA DEL COLLOQUIO CON IL CONDANNATO GIORGIO PIETROSTEFANI. TRE PAGINE SUPERBE CHE FANNO DA SCHIAFFO IN VOLTO AGLI ASSASSINI DEL MAGGIO 1972" -
Caro Dago, e siccome nulla accade mai a caso m’è successo di leggere uno dopo l’altro due libri che attengono entrambi a un episodio dei più drammatici della nostra storia civile: l’agguato mortale del maggio 1972 al commissario Luigi Calabresi, e dunque alla bomba esplosa nel dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano e dunque alla morte del ferroviere anarchico Luigi Pinelli, precipitato pochi giorni dopo dal quarto piano della questura milanese di via Fatebenefratelli.
I due libri sono La bomba di Enrico Deaglio, appena pubblicato dalla Feltrinelli, e La mattina dopo di Mario Calabresi, fresco di stampa da Mondadori. Deaglio è stato un valoroso direttore del quotidiano “Lotta continua” e un sodale del terzetto di militanti di Lc condannati in via definitiva per l’assassinio del commissario Calabresi. Ex direttore de “La Stampa” e di “Repubblica”, Mario Calabresi aveva due anni alla mattina del 17 maggio 1972 quando bussarono alla porta di casa e dissero a sua madre Gemma (che aveva allora 25 anni) che suo marito era stato appena assassinato innanzi a casa loro.
In realtà è ben diverso il collegamento dei due libri al dramma fondamentale di cui ho detto. Deaglio studia a fondo il che e il come della “bomba” del 1969, documenta molto bene le sporcaccionerie e i depistaggi che poliziotti e magistrati e uomini politici fecero ad addossare agli anarchici – Pietro Valpreda e Pinelli – una bomba che era spudoratamente di marca neonazista.
Per arrivare alla famosa stanza in cui ebbe luogo l’ultimo interrogatorio di Pinelli, una stanzuccia in cui c’erano cinque uomini e anzi qualcuno in più perché erano venuti da Roma degli specialisti degli Affari Riservati con l’ida di orientare ulteriormente le indagini verso la pista “anarchica”.
Qualcuno di loro c’era nella stanza in cui Pinelli ha appena firmato il verbale dopo tre giorni di soggiorno in questura in cui ha fumato tantissimo e mangiato pochissimo, si alza, mette in bocca l’ennesima sigaretta, apre la serranda della finestra la cui ringhierina è alta 92 centimetri, si appoggia alla ringhierina, ha “un malore attivo” che lo fa cadere in avanti (e benché lui sia un uomo di basta statura la cui cintura è dieci centimetri più bassa della ringhierina) sbattere per quattro piani, piombare per terra, morire poco dopo all’ospedale, e quei pagliacci al vertice della polizia milanese a dire che s’era slanciato giù gridando “Viva l’anarchia!”.
Vi ho raccontato le mosse di Pinelli per come le ha ricostruite dopo un’inchiesta durata quattro anni un magistrato milanese adamantino che sarà in prima linea ai tempi di Tangentopoli, un uomo che votava comunista o forse era addirittura un iscritto al Pci.
Quattro anni di analisi di tutto quello che era successo nella stanza, della traiettoria della caduta, dei segni sul corpo di Pinelli. La caduta era stata perfettamente verticale, tanto che la sigaretta era lì accanto al corpo; sul corpo non c’era il benché minimo segno di colpi o percosse o di dosi fatte ingurgitare a forza da qualcuno che lo volesse stordire. Nulla di nulla. Dacché, e per esclusione, l’adamantino D’Ambrosio giungeva alla conclusione che l’unica spiegazione possibile della caduta fosse un malore, un mancamento, uno svenimento.
Pur essendo nella materia molto meno autorevole di D’Ambrosio, Deaglio spregia la sentenza del magistrato milanese (il quale è morto e non può difendersi). Lui che la sa lunga (l’impudenza intellettuale di Deaglio – che autoreputa sé e i suoi compagni dei Professionisti del Bene – è pari al suo talento di giornalista e scrittore) è arcisicuro che le cose siano andate diversamente, che non so chi dei poliziotti abbia sferrato colpi di karatè, abbia colpito non sappiamo dove il povero e innocentissimo Pinelli e beninteso dopo averlo torturato ben bene. Da cui la posizione penalmente e moralmente ambigua del povero Calabresi, di cui ogni volta che Deaglio ne pronuncia il nome è come se si nettasse la bocca.
Ne discende pari pari, nella sua ricostruzione di fatti e personaggi, che l’assassinio di Calabresi figurati se poteva essere opera di gente di Lotta continua come asseriscono le sentenze dei tribunali. Ne discende che “il pentito“ Leonardo Marino altri non era che un burattino in mano a quegli stessi che nel 1969 volevano addossare la colpa della “bomba” agli anarchici. E comunque ognuno ha il diritto di scrivere i fantaromanzi che vuole.
Tutt’altra cosa, tutt’altro stile, tutt’altra discrezione nelle tre o quattro pagine che nel libro di Calabresi si riferisce al chi e al come della morte di suo padre. C’è che a Parigi risiede tutt’ora quello che in Italia è stato condannato come l’organizzatore dell’agguato a Calabresi padre, Giorgio Pietrostefani, che oggi ha 76 anni e che versa in cattive condizioni di salute. Calabresi figlio fa di tutto per poterlo incontrare a Parigi, e ci riesce.
Si danno appuntamento a rue Mouffetard, lui ci va, si trova di fronte un uomo che pesa 20 chili in meno rispetto ai temi del suo furore politico e ideologico e che non ha più nulla in comune con quello che era nel maggio 1972. Si guardano, si parlano, Calabresi non riferisce una sola virgola di quello che si sono detti, mi immagino gli sguardi, non so se alla fine del colloquio si siano stretti la mano. Tre pagine superbe che fanno da schiaffo in volto agli assassini del maggio 1972.
Giampiero Mughini