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 2019  luglio 21 Domenica calendario

Sulla mostra "Futurismo!" di Palazzo Blu a Pisa

Azzurro, rosso, giallo, arancio, verde: ma non un arcobaleno qualsiasi, piuttosto un trionfo di colori esagerati, metallici, irrispettosi. E poi le forme: irregolari, sorprendenti, oltre ogni possibile regola (almeno all’apparenza). Colori e forme che non sfigurerebbero sullo schermo di uno smartphone contemporaneo, anche se poi non tutti sembrano sapere (soprattutto tra i ragazzi del nuovo millennio) chi siano Fillìa, Tato o Sant’Elia con quei nomi da rapper e da influencer.

La mostra che si apre l’11 ottobre a Pisa a Palazzo Blu (di un blu comunque più romantico che modernista), che «la Lettura» ha potuto scoprire in anteprima, può essere la giusta occasione per guardare il nostro passato (non solo artistico) con gli occhi di oggi. Curata da Ada Masoero, Futurismo! (fino al 9 febbraio 2020, catalogo Skira) propone oltre cento opere dei maestri del Futurismo (in grande maggioranza dipinti museali o d’importanti collezioni private, oltre ad alcuni disegni, progetti e oggetti d’arte). «La rassegna si propone per la prima volta — spiega la curatrice — di provare come i più grandi fra gli artisti futuristi seppero rimanere fedeli alle riflessioni teoriche enunciate nei manifesti, traducendole in immagini dirompenti, innovative e straordinariamente felici sul piano artistico». E dunque: trasgressione e coerenza.

Organizzata da Fondazione Palazzo Blu con MondoMostre l’esposizione racconta oltretutto di una stretta collaborazione tra musei e fondazioni (29 i prestatori ufficiali): con nove opere dalla Galleria nazionale d’Arte moderna di Roma, 16 tra Museo del Novecento e Gam di Milano, 10 dal Castello Sforzesco di Milano, 21 dal Mart di Rovereto, due dal Museo Caproni di Trento (più i privati). «Ogni opera è stata dunque scelta — spiega sempre Masoero —, oltre che per la sua qualità, per l’aderenza ai punti teorici fondativi del movimento. E dei numerosi artisti visivi che, nel tempo, si unirono al Futurismo, sono stati deliberatamente inseriti i soli firmatari dei manifesti presi in esame». Con due eccezioni: una in apertura, con lo spettacolare ritratto di Marinetti di Rougena Zátková; una in chiusura, con Prima che si apra il paracadute, 1939, l’opera di Tullio Crali scelta come immagine di copertina del catalogo della grande mostra Italian Futurism 1909-1944. Reconstructing the Universe, curata da Vivien Greene nel 2014 per il Solomon Guggenheim Museum di New York, con cui il museo aveva reso finalmente omaggio al «nostro» Futurismo, riconoscendogli quel ruolo d’eccellenza fra le altre grandi avanguardie europee del primo Novecento.

Un ruolo ulteriormente certificato dall’affollamento di mostre dedicate al Futurismo: si è da poco chiusa a Roma a Palazzo Merulana Giacomo Balla. Dal Futurismo astratto al Futurismo iconico (a cura di Fabio Benzi) incentrata sul famoso dipinto Primo Carnera del 1933 mentre si è appena aperta Balla Boccioni Depero. Costruire lo spazio del futuro (fino al 3 novembre) ai Musei Civici di Palazzo San Francesco di Domodossola (a cura di Antonio d’Amico) con 75 opere «a coprire tutta la parabola futurista, dal prefuturismo agli anni Sessanta». E mentre alla Casa d’arte futurista Depero a Rovereto è in corso (fino al 20 ottobre) Come un film. Il cinema post futurista degli anni Trenta (a cura di Nicoletta Boschiero e Federico Zanoner) incentrata sulla (finora poco conosciuta) figura di Emanuele Caracciolo (1912-1944), regista e rappresentante del Gruppo Futurista Napoletano, e sui rapporti di Depero con il mondo del cinema (con tanto di estratti di film come Thaïs di Anton Giulio Bragaglia, Troppo tardi t’ho conosciuta di Caracciolo, Marionette di Carmine Gallone).

Il percorso della mostra di Pisa è aperto dagli esordi divisionisti comuni ai cinque «futuri futuristi»: Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini. Scandita in sezioni intitolate ognuna a un manifesto, la mostra attraversa trent’anni di arte futurista, muovendo dal 1910, quando uscirono i due manifesti pittorici firmati dai giovani «padri fondatori». Di Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini sono esposti numerosi capolavori ispirati con evidenza a quei due testi mentre immediatamente dopo si esplorano le emozionanti trascrizioni visuali del Manifesto della scultura futurista, 1912, steso dal solo Boccioni dopo il viaggio a Parigi di quell’anno.

Poi, in gioco, entrano le «parole in libertà», i cui principi furono formulati per la prima volta da Marinetti nel 1913, nel manifesto L’immaginazione senza fili e le parole in libertà, ei nuovi modelli architettonici, dettati nel 1914 da Antonio Sant’Elia nel testo L’architettura futurista, illustrato da sue opere magnifiche (e «profetiche»), seguite dalle opere «belliche» a sostegno dell’interventismo futurista nella Grande Guerra (il manifesto Sintesi futurista della guerra, 1914). Con Ricostruzione futurista dell’universo, 1915, di Giacomo Balla e Fortunato Depero, «si assiste alla nuova volontà dei due artisti di diffondere i modelli formali del futurismo sull’intera esperienza umana, in una spinta d’innovazione ignota alle altre avanguardie europee». A illustrarla ci sono dipinti, sculture, oggetti, bozzetti, manifesti pubblicitari in un mish-mash di colori, di forme e di «cose» fino a quel momento ben poco artistiche (come giocattoli), realizzati dai due autori. A concludere il percorso, altri documenti, altri manifesti (a ribadire l’idea del Futurismo come «sistema di pensiero»): L’arte meccanica (1922) firmata da Enrico Prampolini, Vinicio Paladini, Ivo Pannaggi, che connotò con i suoi modelli geometrici e «industriali» l’arte visiva dell’intero decennio. E il Manifesto dell’Aeropittura, 1931, firmato da Marinetti con Balla, Benedetta Cappa Marinetti, Depero, Dottori, Fillìa, Prampolini, Somenzi e Tato, fonte di ispirazione per tutti gli anni Trenta.

È una ricognizione in un mondo di invenzioni spettacolari, brillanti e curiose, sempre giocate sul filo della «modernità» e del «nuovo» capace di smuovere le acque, di suscitare scandalo, di fare notizia (e anche politica). Forse anche per questo il Futurismo sembra non passare mai di moda, cambiando di volta in volta pelle, ma rimanendo, oltre le mode, il simbolo di una voglia di cambiamento a tutti i costi. Così il Futurismo di Boccioni ha influenzato profondamente l’arte italiana e preparato la via all’Arte Povera. Così dalla costola di un altro Futurismo, quello di Balla e di Depero, sarebbero sbocciati i «Nuovi Futuristi» d’Italia (a loro tra il novembre 2011 e il febbraio 2012 era stata dedicata una mostra curata da Renato Barilli e Nicoletta Boschiero al Mart di Rovereto), così battezzati dal gallerista Luciano Inga Pin nel 1984 e che includeva, nel nucleo originario, sette aderenti (Abate, Clara Bonfiglio, Innocente, Lodola, Palmieri, Plumcake, Postal a cui poi si sono aggiunti Brevi, Crosa e Luraschi) che, al pari di Alessandro Mendini, hanno rappresentato l’eredità ideale dell’asse Balla-Depero.

Come al Futurismo si richiama Al-Maria, artista e scrittrice di origini saudite appena passata dalla mostra Black Friday al Whitney New York alle Project Room della Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano, scegliendo proprio quel termine vecchio di 110 anni (e cinque mesi visto che era stato ufficialmente coniato il 20 febbraio 1909) per definire il mood delle nuove generazioni del Golfo Persico, a lungo bloccate in un mondo chiuso e che ora sembrano voler modellare le proprie ambizioni sull’immaginario (eccessivo, esagerato, coloratissimo) di Hollywood e dei videogiochi bollato da Al-Maria come Gulf Futurism, ennesima versione aggiornata del Futurismo inventato da Filippo Tommaso Marinetti. Che sul Manifesto di fondazione del Futurismo aveva scritto: «Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche». Parole ancora oggi di una impressionante modernità.