il venerdì, 4 ottobre 2019
Intervista a Robert Wilson (su "Mary Said What She Said")
Regista epico e onirico, raffinatissimo e splendidamente astratto, l’americano Robert Wilson domina le scene di tutto il mondo coi suoi potenti affreschi teatrali: spettacoli ipnotici e visionari nelle architetture scandite da immagini superbe, da gesti privi di emotività e affezione, da una presenza forte della musica e da un uso pittorico e magistrale delle luci. Grande sovvertitore della percezione scenica, l’ormai leggendario "Bob" Wilson ha creato un proprio cosmo equivalente a una dimensione estetica riconoscibile e peculiare, a una prospettiva molto connotata del vedere e del sentire gli spettacoli e a un’ottica della rappresentazione che, ad ogni sua impresa, sembra moltiplicarsi all’infinito nei mirabili frammenti di uno stesso sogno. È lo speciale sogno wilsoniano, pronto ad annullare la nozione di "personaggio" dotato di una continuità psicologica.
Il suo estremo formalismo si rinnova in Mary Said What She Said, atteso nella sua prima ed esclusiva presentazione italiana a Firenze dall’11 al 13 ottobre. Questo monologo-ritratto di Maria Stuarda, scritto da Darryl Pinckney e affidato a un’attrice unica e perennemente esatta come Isabelle Huppert, costituisce il tassello iniziale di una collaborazione fra il Théâtre de la Ville di Parigi (che lo ha già accolto con successo) e il teatro fiorentino della Pergola. Le due istituzioni europee, coproduttrici di Mary Said What She Said, hanno deciso di collaborare per impegnarsi a varare, insieme ad altre realtà teatrali confluite attorno a quest’asse italo-francese, "iniziative che mirano a nutrire i percorsi creativi delle nuove generazioni", spiega Bob. Il quale trova il tempo per parlarci di notte da Toronto, in Canada, dov’è preso dalla regia dell’opera di Puccini Turandot. Dimostra un attivismo inarrestabile, e la sua volontà di stimolare i giovani è testimoniata dal fertile laboratorio del Watermill Center di New York, sede di workshop e di svelamenti artistici da lui fondato, e ora coinvolto in una rete di condivisioni progettuali internazionali. Segnala Wilson che il Watermill "è diventato un partner dell’itinerario di crescita e professionalizzazione della Scuola per attori Orazio Costa della Pergola", e annuncia "progetti rivolti ai giovani, lungo i prossimi anni, nel comune interesse verso un lavoro di training che vuol investire sul teatro del futuro". È già fissato nel 2020 l’allestimento di un nuovo Libro della giungla con la sua regia.
Debutta intanto a Firenze la vicenda di Maria Stuarda, in grado di esaltare al massimo il carisma della "Grande Dame" del cinema francese, imperturbabile ed enigmatica come piace a Wilson. "È il mio terzo incontro artistico con Isabelle Huppert, dopo Orlando di Virginia Woolf, replicato per vent’anni, e Quartett di Heiner Müller", racconta il metteur en scène statunitense, specificando che "Isabelle, che in Mary Said What She Said sarà sola in scena, è una delle rarissime attrici capaci di pensare in modo astratto le parole che si trova a recitare, senza utilizzarle in chiave naturalistica. Non mi piace la psicologia espressa da molti attori, e lei sa evitarla drasticamente".
Fenomeno estraneo alle mode (è in pista dagli anni Settanta), Wilson ha fama d’innovatore geniale dei linguaggi, essendo operativo, oltre che come regista, come designer, video-artista, scenografo, pittore, scultore... "Non esiste un contemporaneo la cui opera sia stata altrettanto ampia e influente" disse di lui la scrittrice Susan Sontag. Da giovane, fisicamente, pareva un modello di Armani: perfetto e gelido. Ora che avanza con disinvoltura verso gli ottanta (è nato nel 1941 a Waco, in Texas, "dove proliferavano i rodei e non c’erano teatri né gallerie d’arte"), è più segnato in volto e quindi migliorato nel senso dell’umanizzazione. Ma qualcosa di laconico e sprezzante alimenta il suo fascino ombroso. Sostiene che la Huppert, trasformata in Maria Stuarda, può essere "fredda e calda, tenera e di ghiaccio, vulnerabile come una bambina e potente come una sovrana, poiché è un’attrice che non ha paura dei contrasti e delle contraddizioni". Nemico dell’idea di interpretazione, ha concepito per Isabelle uno spettacolo "libero e aperto, e contenuto esclusivamente dal disegno delle luci". L’evocazione del destino della donna "scorre nelle immagini che Maria Stuarda edifica come se fossero riflesse dentro la propria mente, mentre lei ripercorre la sua vita prima di morire. E dalle diverse esperienze dell’esistenza passa al racconto delle personalità che ha conosciuto".
Questo spettacolo, "basato su tempo e spazio, strutture di parole e azioni", è accompagnato dalle musiche di Ludovico Einaudi, "compositore la cui onda musicale, a seconda dei momenti, può essere morbida o aggressiva". E il copione "ricco di idee" costruito dal drammaturgo Pinckney restituisce l’icona di una regina "che ha combattuto per controllare la sua sorte e che nel giorno precedente alla propria esecuzione combatte ancora, lottando in cerca della giustizia divina". L’itinerario è suddiviso in tre capitoli che propongono fra l’altro la sua adolescenza in Francia, la guerra religiosa tra cattolici e protestanti, il ritorno di Maria Stuarda in Scozia, l’imprigionamento e la condanna a morte sancita da sua cugina Elisabetta d’Inghilterra.
Nell’imponente vuoto di una scena che non riesce a intimorirla, Isabelle-Mary rivede la regalità dei suoi trascorsi sfolgoranti insieme alle catastrofi che l’hanno colpita, alle separazioni e ai conflitti. "Il testo è una materia sonora che ci conduce in territori mentali profondi e imprevisti" osserva da parte sua Huppert. "In Bob Wilson è la forma a portarci verso il fondo. Durante le prove lui non parla d’altro che di movimenti, non dando mai indicazioni sui contenuti narrativi, né sulle psicologie o i caratteri. I significati del testo rimangono estranei al nostro campo d’esplorazione. Eppure, quando in scena divento Maria Stuarda, ho l’impressione di attraversare l’interezza della sua vita in poco più di un’ora".
Si tratta, wilsonianamente, di un misterioso viaggio imperniato sulle intensità, sottolinea l’attrice, che come il suo regista crede nel vigore comunicativo della pura forma. E descrivendola fa coincidere ritmi temporali e stati d’animo: "C’è lentezza, dunque dolcezza. C’è rapidità, dunque violenza. C’è dell’immobilità e poi, bruscamente, interviene una situazione d’intimità. Questo succedersi di pause e tempi trattenuti lascia spazio alla memoria. Ciò che mostra lo spettacolo è la maniera in cui avviene il ricordo. Non è mai un ricordo fissato bensì è mobile, cioè vissuto al presente e volatile come la particella di un sogno. Ma dire questo è già troppo, perché nulla di schematico o normativo definisce il lavoro di Wilson".