ItaliaOggi, 10 ottobre 2019
Germania, sempre meno tedeschi
Conoscete la signora Aniela Kazmierczak? Suppongo di no, eppure appare ogni giorno sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, amata e detestata. Sarebbe il vero nome di Frau Angela Merkel. Suo nonno da parte paterna era polacco, originario di Poznan, nella Grande Guerra a 19 anni avrebbe combattuto contro i tedeschi, ma non è certo. Il padre della cancelliera cambiò il nome di famiglia in un meno ostico Kasner, lei preferì mantenere il cognome del primo marito Ulrich Merkel, nonostante il divorzio. Avrebbe mai fatto carriera con l’impronunciabile cognome del nonno? Anche Frau Angela ha origini straniere come una buona parte dei suoi connazionali. Anzi, in diversi grandi centri i tedeschi, come dire?, purosangue, sono già in minoranza.A Offenbach, 128 mila abitanti, alla periferia di Francoforte, ma un comune separato, i tedeschi senza un passato di emigrazione in famiglia, sono appena il 37%. Ci soggiorno da anni, in occasione della Buchmesse, la più grande fiera del libro, e per giorni non riesco a scambiare una parola con un «vero» tedesco, in albergo il personale è turco, al ristorante russo o italiano, il tassista è emigrato dall’Iran, il giornalaio greco. A Francoforte, 734 mila abitanti, gli «stranieri» raggiungono il 53%, a Monaco il 43, a Norimberga il 44, a Düsseldorf il 40. A Stoccarda, la città della Mercedes, sono il 46%, ma tra i giovani fino ai 18 anni la percentuale sale al 60%. Tra un decennio, gli emigrati o i loro figli saranno in maggioranza, prevede la Neue Zürcher Zeitung. Una società «multikulti» come si erano augurati i Verdi negli Anni Ottanta.
Da siciliano non mi meraviglio, né mi preoccupo, sono un fritto misto del Mediterraneo. Il mio cognome non indica che qualche mio avo abbia fatto il giardiniere, viene dallo spagnolo Jardenas. La Vucciria, quello che era il folcloristico mercato ritratto da Guttuso, non allude al chiasso, al vocio, è una storpiatura dal francese boucherie, macelleria, la Kalsa, antico quartiere di Palermo, viene dall’arabo al Khalisa, significa «la pura». E così via.
La definizione di «tedesco con radici straniere» è ambigua, e varia a seconda delle regioni. A Berlino molte strade e piazze portano nomi francesi (Gendarmenmarkt), come le persone. L’ultimo capo di governo della Germania Est, era Lothar de Maiziére. I suoi avi erano ugonotti che per scampare al massacro della notte di San Bartolomeo, nell’agosto del 1572, fuggirono dalla Francia e vennero accolti in Prussia. Oskar Lafontaine, il leader della sinistra, è della Saar, al confine con la Francia, e il suo nome probabilmente ostico per alcuni elettori gli sarà costato qualche voto. Se risaliano troppo in là nel tempo, noi tutti europei abbiamo qualche antenato venuto da altrove. Anche se questo non è un buon motivo per dover accogliere chiunque voglia emigrare da noi, da ogni parte del mondo. Qui, giustamente, si distingue tra flüchtlinge, fuggiaschi, a cui si deve dare asilo, e emigranti, come mezzo secolo fa noi italiani, che vengono in cerca di un lavoro. Alcuni vogliono tornare indietro, prima o poi, chi resta dovrebbe integrarsi.
In Germania ci si limita a risalire alla terza, o alla quarta generazione, e la percentuale cambia a seconda delle regioni, ed è più bassa al nord: a Hannover e a Berlino siamo al 30%, a Kiel sul Baltico al 24%, a Potsdam a pochi chilometri dalla capitale si scende al 12%. A Dresda, nella scomparsa Ddr, siamo all’11%. Su una popolazione di 81 milioni e 700 mila, quelli con radici straniere o emigrati sono circa il 24%, ma vanno crescendo. Tra i ragazzi tra i 10 e i 15 anni, sono il 36%, tra i bambini fino ai dieci anni il 40%.
La percentuale aumenta se si contano i 14 milioni di Vertriebene, gli espulsi dalle regioni orientali conquistate dall’Armata Rossa, e passate alla Polonia o tornate alla Cecoslovacchia, come la Poznan del nonno di Angela. Ma erano tedeschi e comunque l’integrazione non fu senza problemi. In gran parte erano cattolici e non furono sempre e ovunque bene accolti dai luterani. Mio padre era nato a Pavia, nel 1907, dove mio nonno era professore, e tornò a Palermo nel 1915 all’inizio della guerra. Mi raccontava che a scuola lo chiamavano «il tedesco» e lo tenevano a distanza. Gli scolari siculi di un secolo fa avevano le idee confuse sulla loro identità italiana. Non solo loro e non solo allora.