il Giornale, 10 ottobre 2019
Draghi dà le pagelle ai premier
In principio, per i suoi trascorsi a Goldman Sachs, era «l’Americano»; poi è diventato «il Tedesco», con tanto di elmetto prussiano calato in testa, grazie alla magnifica ossessione verso i target d’inflazione; infine, eccolo riclassificato come l’Italiano non appena il «whatever it takes» è stato dipinto come la ciambella di salvataggio lanciata al Belpaese. In realtà, Mario Draghi è stato un formidabile interprete dell’indipendenza e dell’equidistanza del banchiere centrale, il cui compito unico è servire la Bce e difendere l’eurozona. Costi quel che costi, appunto. Anche se trovare un idem sentire con cui spazzar via da Eurolandia opposti estremismi e politiche fiscali fra le più disparate diventa una fatica degna di Sisifo.
Lo si capisce, una volta di più, dalle pagine dell’accurato e documentato libro Mario Draghi l’artefice: la vera storia dell’uomo che ha salvato l’euro (Rizzoli Editore), scritto a quattro mani dai giornalisti Jana Randow e Alessandro Speciale. È un racconto che serve a mettere a fuoco soprattutto il calvinismo professionale di Draghi. Forgiatosi in una giovinezza difficile, segnata dalla perdita di entrambi i genitori e scandita dagli studi dai Gesuiti e universitari consolidati con i ritmi forsennati del Mit di Boston, l’incarnazione dell’America anni Ottanta. Solidissima preparazione unita a un carattere di ferro. Servirà, una volta toccato il vertice dell’Eurotower, a tener testa ai falchi tedeschi e ai vari governi che lo tirano per la giacchetta. Rispetto al record di Alan Greenspan, la cui indulgenza tanto verso il turbo capitalismo di Reagan quanto nei confronti del liberismo democratico di Clinton gli ha consentito di conservare per 18 anni la poltrona di presidente della Fed, «Super Mario» si congeda dalla Bce dopo otto anni con un altro tipo di primato: durante il suo mandato ha visto avvicendarsi ben sette governi in Italia: da quello di Silvio Berlusconi fino all’attuale Conte-bis. A nessuno di essi ha fatto sconti, sollecitando di tenere dritta la barra dei conti e la testa sulle riforme strutturali. La Bce, ha ripetuto come un mantra, non può fare tutto. «È assurdo pensare che i tassi sui titoli di Stato possano calare grazie a interventi esterni», ricorda Draghi quando la crisi del governo Berlusconi tocca lo zenith. Se l’arrivo di Mario Monti a Palazzo Chigi sembra dar corpo ai desiderata della Bce, ma a costo di misure che condannano il Paese alla recessione, piace l’ascesa di Matteo Renzi, quel piglio da rottamatore che porta al Jobs Act, incensato pubblicamente da Draghi. La luna di miele dura però poco: il referendum costituzionale marca un solco fra l’ex sindaco di Firenze e il capo della Bce, che esterna pubblicamente la propria delusione. Ben più forte la preoccupazione per l’esecutivo a trazione gialloverde, subito accusato di «far danni» con quelle spinte populiste e la mai sopita avversione per l’euro di alcuni esponenti leghisti. L’iniziale scetticismo nei confronti della nomina di Giovanni Tria all’Economia si stempera con la conoscenza fra i due, ma l’Italia continua ad arrancare, così come buona parte dell’eurozona. Il lancio di un secondo round di quantitative easing è storia ancor fresca, quanto la crescente ostilità di parte del board della Bce verso «l’Italiano». Draghi ha messo ancora una volta le mani nella «cassetta degli attrezzi» della Bce: tocca ora all’Italia darsi da fare. Con Christine Lagarde, da novembre alla guida della banca centrale, non è detto che rimanga sul leggio lo stesso spartito suonato da «Super Mario».