La Stampa, 10 ottobre 2019
Breve storia dei curdi
C’è un’altra guerra che sta per consumarsi oltre la frontiera: quella dei più disperati. Ci sono i curdi, il popolo senza Stato più numeroso del mondo che rischia di venire sradicato dalle terre dove vive da secoli. Ci sono i profughi siriani. Quelli che si ammasseranno contro il muro di oltre 700 chilometri, che segna il confine fra i due Paesi e che troveranno chiuso o con le armate della Mezzaluna pronti a respingerli, ma soprattutto i siriani dall’altra parte della fortificazione che dalla Turchia stanno per tornare a casa. In una terra che però non è la loro, ma quella scelta per loro dal presidente turco Erdogan per ripopolare il Nord della Siria e diminuire l’influenza dei curdi nella regione anche dal punto di vista etnico.
Una tragedia fatta di diritti negati, coercizioni e volontà di ridisegnare la mappa, anche quella demografica e umana, di un Paese straziato, dove le potenze attive nella crisi adesso vogliono la loro zona di influenza. In prima fila, c’è la Turchia, che con il pretesto della lotta al terrorismo vuole annichilire la minoranza curda, con oltre mezzo milione di civili che sarà costretto a scappare nel Sud del Paese, cacciato da quella terra rivendicata da anni di lotta come propria, difesa fino all’ultimo uomo dall’avanzata dello Stato Islamico e dove adesso non potranno più nemmeno vivere.
Al loro posto, dalla Mezzaluna arriveranno almeno un milione di siriani, che dovranno dare vita a un nuovo Nord della Siria, dove la presenza arabo-sunnita sia preponderante e dove la popolazione veda di buon occhio la presenza di Ankara oltre confine. Il piano del presidente Erdogan è già pronto da tempo. Un vero e proprio protettorato con la costruzione di moschee e università per creare la propria zona di influenza e alleggerire un Paese, la Turchia che ha visto la sua economia e la sua sicurezza interna peggiorare anche a causa della crisi siriana e della presenza di 3,6 milioni di rifugiati. Una marea umana che se fino a qualche anno fa godeva di una politica di porte aperte, nella speranza che venisse mossa guerra al presidente Assad, oggi, dopo nove anni di conflitto e il riposizionamento di Ankara ha cambiato funzione.
E dai messaggi di accoglienza si è passati ai piani di ricollocazione. Da settimane a Istanbul è in atto un’operazione per prendere i rifugiati siriani illegali e portarli nelle località turche dove sono registrati. Ankara parla di profughi che tornano in Siria volontariamente, ma dimentica di menzionare gli incentivi economici per agevolare la loro decisione di andarsene. In un quartiere di Istanbul è persino comparso un cartellone nel quale si annunciava trionfalmente che i siriani stavano lasciando la città. E se centinaia di migliaia di siriani si preparano a tornare in patria, c’è chi inizia a temere che una parte possa riversarsi in Europa. Da settimane Cipro, Atene, la Bulgaria fanno pressioni su Bruxelles perché temono che si riapra la rotta balcanica. Bruxelles ieri sera ha diramato un comunicato in cui si chiede alla Turchia di «cessare l’azione militare unilaterale» sottolineando come questa metta a rischio il processo di pace e come la zona di sicurezza che Erdogan vuole costituire difficilmente potrà soddisfare i criteri delle Nazioni Unite.
Ma il presidente non solo non arretra, è pronto a chiedere a Bruxelles nuovi fondi per evitare che i profughi raggiungano il Vecchio Continente. Con lui, sa di avere tutto il Paese, al netto dei 15 milioni di curdi turchi che ora guarderanno i loro fratelli siriani ancora più da lontano.