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 2019  ottobre 10 Giovedì calendario

Intervista a Jean Todt (sui motori e Schumacher)

Ex pilota di rally, manager, paladino della sicurezza, appassionato di backgammon, arte, nuove tecnologie. Le mille vite di Jean Todt, francese, 73 anni, l’uomo che tra i molti incarichi (non retribuiti) da un decennio tiene il volante dell’automobilismo alla presidenza della federazione internazionale, la Fia. Fu lui a portare Michael Schumacher alla Ferrari: 5 Mondiali piloti e 6 costruttori di fila, 6 e 8 in tutto per la Scuderia sotto la sua gestione, dal 1993 al 2008. Lui il ponte teso tra il 7 volte campione del mondo tedesco anche dopo l’incidente sugli sci a Meribel nel 2013 e noi che da allora lo aspettiamo di qui. Parla di questo, come di molto altro, nel suo ufficio a Parigi con vista spettacolare su Place de la Concorde.
Presidente, ci sono novità sullo stato di salute di Michael Schumacher dopo il ricovero nelle settimane scorse a Parigi rivelato dalla stampa francese?
«Non c’è nessuna notizia, salvo il fatto che Michael sta lottando per migliorare ogni giorno la situazione. Dobbiamo accompagnarlo in questa lotta, supportare sua moglie Corinna che è una signora fantastica e che si occupa di lui e dei figli. Dobbiamo aiutarli, rispettando al massimo i loro desideri».
La riservatezza totale?
«Ho letto cose incredibili sul suo ricovero e come al solito quelli che sanno non parlano, e quelli che non sanno parlano. Io faccio parte di quelli che fanno. Sono stupefatto che, quando è venuto a Parigi per un controllo in ospedale, della gente che dovrebbe privilegiare il segreto medico abbia parlato. Questo onestamente toglie tutta la fiducia, per me è indegno e spero che troveremo la fonte. C’è poco altro da dire. È ovvio che tutti intorno dobbiamo aiutarlo e augurarci che ci saranno, diciamo, dei miglioramenti continui. Spero che un giorno Michael potrà… Ho detto la verità, vedo dei gran premi in tv con lui, spero che un giorno potremo andare insieme a un gran premio. Lo seguo come al solito, lui e la sua famiglia, come è sempre stato. Abbiamo un contatto quotidiano e stasera da Parigi andrò a Ginevra e lo vedrò. Lo sappiamo che ha avuto un incidente che ha lasciato delle tracce. E questa è una cosa privata».
Ma tutti sono ansiosi di conoscere qualcosa di più.
«Normale, è sempre stato così, Michael è una leggenda dell’automobilismo. Non è che sia ingiusto volergli bene e voler sapere di lui, ma tocca alla famiglia decidere quello che vuole o non vuole dire: cerca di proteggerlo, e difendere la propria vita privata come Michael ha sempre voluto. La nostra è una continuità di un suo desiderio: non parlava mai di sé, non faceva mai vedere le foto dei figli».
La sua influenza dura, non solo
nel motorsport.
«Ci sono alcune personalità forti come la sua. Penso a Carl Lewis, che ho incontrato a Doha ai Mondiali di atletica: ero molto curioso di conoscerlo, mi ha fatto effetto, ha scritto un capitolo della storia del suo sport. In F1 penso a Fangio, Senna, Jim Clark, il mio idolo da ragazzo. Tutti hanno lasciato un segno. I record? Fatti per essere battuti: credo che tra poco Lewis Hamilton supererà i 91 gp vinti da Michael mentre gliene servono altri 3 per conquistare più titoli di lui».
E poi, arriverà in Ferrari?
«Deve chiedere a John Elkann, Louis Camilleri, Mattia Binotto».
Squadra giovane, somiglia a quella che formò lei negli Anni 90?
«Giovane, ma con una piattaforma.
Quando fui assunto in Ferrari il 1° luglio ’93, non c’era niente. Lo chassis, per esempio, era prodotto in Inghilterra. Quando sono andato via a fine 2008 c’era un sistema di altissimo livello: fu un risultato globale, non solo mio. Da allora la Ferrari è protagonista: mai stata più che terza nel campionato. Non dico che ho lasciato un’eredità, ma che è una squadra tra quelle vincenti a lungo termine».
E suo figlio Nicolas, manager, ha portato in dote a Maranello una perla come Charles Leclerc.
«È complicato per lui essere mio figlio nel mio stesso ambiente. Ma sono molto orgoglioso di lui, ha creduto in un ragazzo che non aveva i mezzi per andare avanti e che è ora considerato uno dei migliori piloti al mondo. Lo ha finanziato fin da bambino in karting. Nicolas ha sofferto per la morte di Jules Bianchi, lo aveva scoperto lui. Jules fu il primo a parlargli di Leclerc».
Il monegasco, 22 anni fra pochi giorni, riporterà il Mondiale alla Ferrari?
«Uno non fa 4 pole position di fila così, all’improvviso. Il risultato arriverà con la vettura giusta. Con un’auto di alto livello come quella che la Ferrari ha oggi, farà vedere grandi cose. Per vincere è indispensabile questo abbinamento: un grande pilota, una grande squadra, una grande 
macchina e un po’ di fortuna».
Le ricorda qualcuno?
Come Michael.
Journal du dimanche
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Mick, il figlio di Schumi, è intelligente, educato e ha un profilo basso. Avrà la scintilla? Lasciamolo guidare in pace
«Io non vivo di memorie e di passato, amo il presente e il futuro.
Certo, le sue 4 pole consecutive non c’erano in Ferrari da Schumacher nel 2000».
La Scuderia deve anche gestire la rivalità interna con Sebastian Vettel, come?
«Non c’è nessun pilota che sia contento di vedere il proprio compagno di squadra davanti a lui.
Ho la mia opinione, ma troverei totalmente inopportuno giudicare quello che fanno gli altri in queste situazioni. Ai miei tempi ho sempre cercato un modo sincero e trasparente di gestire la squadra, per non tradire nessuno».
Il figlio di Michael, Mick, che è in F2, ha chance di fare bene quanto il papà?
«Lo conosco da quando è bimbo, lo adoro, è intelligente, molto bene educato, ha un profilo basso. È il risultato del gran lavoro dei suoi genitori che hanno voluto sempre tenerlo fuori dalla visibilità. Ha scalato la piramide, dai kart alle formule minori. Avrà la scintilla?
Non si sa ancora. Lo dobbiamo lasciare lavorare in pace e sperare che abbia l’opportunità di guidare una buona macchina. Il cognome è una pressione in più? Forse, ma col casco e la visiera giù è come gli altri piloti: si dimentica di tutto».
Alle nuove generazioni di piloti, abituati al simulatore, manca la paura?
«Non lo so. Oggi c’è l’abitudine al fatto che non succeda niente. Se invece succede, c’è sorpresa. Al contrario che in passato: qualcosa doveva succedere. Se non accadeva, si diceva di essere fortunati. Se capita qualcosa oggi, si dice siamo stati sfortunati. In passato si poteva fare tutto, oggi c’è più controllo forse con ripercussioni su interesse e adrenalina. Ma per fortuna il motorsport è più sicuro di 40 anni fa. Sono anche ambasciatore Onu per la sicurezza stradale, per me è un tema assolutamente prioritario, anche se sfortunatamente il rischio zero non esiste e non esisterà mai.
Guardi questo documento: da gennaio abbiamo avuto 24 morti nel mondo delle corse, di cui 14 in Europa, il 55%».
Qual è la qualità imprescindibile per essere pilota?
«Il talento naturale aiuta. Poi la determinazione e avere i piedi per terra, che per me è una dote indispensabile per durare. Poi impegno e umiltà».
«Si metteva sempre in discussione.
Aveva paura di non fare bene, aveva paura di perdere. Leggevo sul
un articolo su Henry Kissinger, 96 anni, in cui si dice che è sempre un uomo appassionato, fresco, ansioso, che si mangia le unghie. Mi è piaciuto. Mai dare niente per scontato nella vita.
Mio papà era medico, in qualche modo l’ho seguito: festeggeremo i 10 anni della Icm, l’Istituto del cervello e del midollo spinale di cui sono vicepresidente, 700 studiosi, per ricerca siamo secondi al mondo».
«È indispensabile. Per tutte le discipline, non solo per la F1.
L’automobilismo sportivo potrebbe essere a rischio se non verranno prese delle misure drastiche. Per questo abbiamo voluto introdurre il motore ibrido in F1 e lanciare la Formula E. Penso che al più presto dovremo passare a dei carburanti più puliti, ne ho appena parlato col presidente della Total e con il direttore tecnico della Fia, Gilles Simon. Potrebbe essere una rivoluzione. I governi hanno in agenda il cambiamento climatico e la gente scende nelle piazze».
«Nessuno sconvolgimento sul motore. La standardizzazione di alcune parti? Per me è più importante fare un motorsport più green. Abbiamo un’opportunità per sfruttare lo sport come valore politico. Rispetto il presidente del Cio Thomas Bach che ha usato le Olimpiadi Invernali di PyeongChang come ponte tra le due Coree. Noi come Fia abbiamo la possibilità di introdurre delle nuove tecnologie che abbiano un vero senso: non saranno 20 macchine a cambiare la produzione nel mondo, ma possiamo dare un messaggio molto forte».
«Le sognerei. Abbiamo creato una commissione delle donne. La settimana scorsa a Bruxelles abbiamo presentato un programma di donne nelle corse. Io ho accolto con piacere la controversa W Series perché spero possa far emergere alcune ragazze. Quello che vorrei di più di tutto? Una donna al più alto livello, un cinese al più alto livello e un indiano al più alto livello».
Molti chiedono più spettacolo durante i gran premi.
«Oggi abbiamo tre team e a volte due che fanno la loro gara e gli altri sette un’altra. Succedeva anche ai miei tempi, il che significa che non abbiamo lavorato bene. Lo spettacolo dipende anche dal disegno del circuito. Conosciamo il male, dobbiamo trovare la medicina. Siamo in un mondo di compromessi e i compromessi non ci consentono di raggiungere tutto il risultato che vorremmo, ma meglio un compromesso che una guerra nucleare su tutto. Spero che il nuovo regolamento consentirà di raggiungere la maggior parte degli obiettivi. Ma io prima di tutto sono per la riduzione dei costi, che accorcerebbe il divario tra grandi e piccoli team. Trovo insano che certe squadre spendano in lordo più di 500 milioni e che abbiano 1500 dipendenti per far correre due macchine in 21 o 22 gare. Per me non ha proprio senso. In un mondo dove il 10% della popolazione non può mangiare, non si può curare, non può avere accesso ai vaccini. Una certa percezione della responsabilità e della realtà per me sono indispensabili. Dobbiamo evitare di trovarci in un parco dorato, dobbiamo aprire gli occhi sul mondo».