Corriere della Sera, 10 ottobre 2019
Gli immigrati che assumono gli italiani
Questa è la storia di Marie Terese, venuta dal Ruanda: dormiva in un container, era una «invisibile», una clandestina da scacciare; adesso nelle sue cooperative d’accoglienza ha assunto 150 italiani, ospita 800 profughi e nel 2018 ha vinto il MoneyGram Awards come migliore imprenditrice immigrata dell’anno. Ma è anche la storia di Erion l’albanese, che da povero gelataio immigrato è arrivato ad aprire una sua gelateria e a piazzarla nel 2017 tra le dieci migliori d’Italia (secondo il «Gastronauta») con una dozzina di dipendenti. È la storia di 1600 imprenditori immigrati che ce l’hanno fatta e qui in Italia danno lavoro a noi italiani (verrebbe da dire. prima a noi italiani). Ma è anche la storia di due milioni e mezzo di lavoratori stranieri che talvolta s’arrangiano e sempre provano a farcela (il 33% fa «lavori di fatica» che noi non vogliamo più) e, provandoci, producono 139 miliardi di euro, il 9% del nostro Pil (contro un peso del 3% sulla spesa pubblica). Ma soprattutto è la storia di un equivoco da sciogliere, dell’intreccio perverso che lega due questioni assolutamente distanti tra loro: le immigrazioni da lavoro (che ci servono come l’ossigeno) e l’accoglienza dei profughi (che ci tocca per continuare a essere umani).
Gli ingressi legali per lavoro in Italia sono di fatto chiusi dal 2011, da noi si entra solo per ricongiungimento familiare o richiesta d’asilo. L’ultimo documento programmatico triennale per regolare gli ingressi degli stranieri non Ue per motivi di lavoro è del 2005. Dal 2011 i «decreti flussi» annuali non prevedono ingressi per motivi di lavoro subordinato non stagionale e le uniche quote disponibili sono, salvo eccezioni, riservate alla conversione di altri titoli di soggiorno (pertanto rivolte a soggetti già presenti sul territorio nazionale). Nel 2019 è stata prevista una quota massima di 30.850 ingressi, 18.000 dei quali per motivi di lavoro stagionale (settori agricolo e turistico-alberghiero) e 12.850 come conversioni in permessi di lavoro di permessi di soggiorno già rilasciati a vario titolo e agli ingressi per lavoro autonomo.
Insomma, mentre i naufragi davanti a Lampedusa ci ricordano la tragedia di chi fugge, mentre l’Unione europea tentenna davanti alle responsabilità comuni, il tema degli ingressi legali nel Paese torna centrale. La Fondazione Moressa, nel suo Rapporto 2019 sull’economia dell’immigrazione spiega con efficacia ciò che è accaduto: nel 2009 i permessi di lavoro rilasciati in Italia erano il 47%, l’anno scorso appena il 6%. Il dato diventa ancora più eclatante se incrociato con questo del Viminale: i permessi per motivi familiari erano il 32,3% nel 2007 e sono diventati il 45,1% nel 2016; quelli per asilo e umanitari erano il 3,7% nel 2007 e si sono impennati al 34,3% nel 2016. Queste due sono le porte d’ingresso rimaste. Dietro una simile inversione in 10 o 12 anni ci sono la paura e la propaganda, gli attentati jihadisti e le primavere arabe coi picchi di sbarchi. Il problema è che (fonte Onu) nel 2035 in Italia la popolazione in età lavorativa diminuirà, senza le migrazioni, del 14%.
Qui, fonte Moressa, pesa anche l’addio di tanti giovani italiani (siamo tornati terra di emigrazione): in 10 anni sono andati all’estero 500 mila connazionali di cui 248 mila ragazzi tra i 15 e i 34 anni (è come se fosse emigrata tutta la città di Verona): con la perdita di 1 punto percentuale di Pil (16 miliardi di euro).
Gli stranieri che lavorano da noi sono il 10,6% degli occupati (dato che assume più significato in rapporto alla percentuale straniera sulla popolazione: l’8,7%). Uno su tre ci rimpiazza nei lavori più umili e a basso reddito (nel 2018 in agricoltura: -1,1% italiani, +6,1% stranieri; nelle costruzioni -1,3 italiani + 1,9 stranieri). Ma il contributo economico dell’immigrazione è dato anche da 700 mila imprenditori nati all’estero (9,4% del totale) e da 2,3 milioni di contribuenti, un gettito di 3,5 miliardi di Irpef e 13,9 miliardi di contributi versati. Certo la materia va regolata meglio.
Prima di tutto riaprendo i canali dell’immigrazione legale per contrastare davvero l’immigrazione clandestina (non con la farsa delle navi Ong bloccate in mare): il sociologo Stefano Allievi («Immigrazione, cambiare tutto», Laterza) paragona questa fase al proibizionismo che in America portò al contrabbando di alcolici. Secondo il Rapporto della Fondazione Moressa «occorre distinguere chiaramente tra politiche di accoglienza e asilo e politiche di ingresso regolare per motivi di lavoro da affrontare con strumenti specifici». Come? Ad esempio con ingressi basati su un documento pluriennale che contenga le quote suddivise per finalità (lavoro autonomo; lavoro dipendente; studio e formazione; ricerca) e i profili preferenziali di ammissione con i criteri di scelta attraverso un sistema a punti (modello che in Canada funziona). Le richieste di asilo dovrebbero essere escluse dalla programmazione; si potrebbe recuperare il sistema degli sponsor abolito dalla legge Bossi-Fini del 2002 e introdurre il permesso di soggiorno per comprovata integrazione ai fini della regolarizzazione ad personam del sommerso, come in altri Paesi europei. Non è buonismo, è efficienza. O, per dirla con la ministra Lamorgese, è «immigrazione senza emozione», buonsenso. Un po’ come il richiamo allo «scenario di testa» che Alessandro Rosina auspica, introducendo il rapporto Moressa, al posto dello «scenario di pancia» (respingiamoli tutti) o «di cuore» (accogliamoli tutti). Parole sagge. Ma senza un po’ di cuore non si va lontano. Marie Terese, per dire, deve tutto agli abitanti di Sezze, la cittadina in provincia di Latina dove viveva in clandestinità: fecero una sottoscrizione, andarono in questura perché potesse ottenere i documenti. Lei non ha dimenticato e molto ha restituito col suo lavoro da imprenditrice. Accadeva 23 anni fa: altra era, certo. Ma cervello e cuore insieme possono fare parecchio anche oggi.