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 2019  ottobre 10 Giovedì calendario

Che fine faranno i foreign fighters?

Nella matassa Usa-Turchia-curdi c’è un filo robusto, quello dello Stato Islamico, avvolto oggi attorno a tre piloni. Il primo è quello della «frattura». Sin dall’epoca della crisi somala negli anni Novanta i movimenti jihadisti hanno dimostrato la loro abilità nello sfruttare le fasi di crisi, anche a livello locale. L’invasione turca aprirà spazi e lo Stato Islamico cercherà di infilarsi. La fazione non è mai morta e neppure scomparsa, ha solo mutato tattiche e pelle per superare il momento complicato. Infatti ha continuato a colpire, usando spesso elementi piazzati dietro le linee avversarie. Il secondo perno è quello dei prigionieri. Dopo il collasso territoriale del Califfato i guerriglieri hanno catturato circa diecimila militanti, compresi duemila volontari stranieri e molte loro famiglie. Più volte hanno chiesto una mano ai governi occidentali affinché si facessero carico di questa polveriera. I Paesi europei hanno preferito lasciare gli estremisti nelle precarie prigioni del Kurdistan siriano e hanno rimpatriato solo piccoli numeri di arrestati, donne e bambini. 
Una politica dello struzzo condizionata anche dall’umore dell’opinione pubblica, che non vuole farsi carico di chi ha fatto una scelta violenta e radicale. Abbia sperato che fossero altri a occuparsi di tagliagole e killer. Un rifiuto a volte rinforzato da evidenti problemi di natura legale: non tutti coloro che si sono uniti alle «brigate nere» di Al Baghdadi hanno compiuto eccidi e non è sempre facile provare le loro responsabilità dirette. Dunque una volta riportati in patria si poneva – e si pone – il problema delle prove da presentare davanti ad un magistrato. Su alcuni dirigenti – che si sono esposti in audio e video o sui quali esistono testimonianze precise – il dossier è «carico», denso, pieno di indizi e riferimenti. Per altri, all’opposto, è debole. E in altre situazioni la mano è passata a forze speciali e intelligence che, insieme ai curdi, hanno liquidato i «volontari» sul campo. Molti sono stati uccisi dai droni e dai commandos, compresi alcuni ispiratori di attentati in Europa.
Il Califfo, invece, non si è mai dimenticato dei suoi uomini. In un recente audio Al Baghdadi ha lanciato un appello vigoroso perché i seguaci si mobilitino per liberare i prigionieri. Una ripetizione della strategia condotta dall’Isis prima della sua grande vittoria quando ci furono attacchi in serie ai centri di detenzione in Iraq. Per farlo può affidarsi alle «colonne» operative ma anche alla corruzione.
E siamo al terzo pilone: soldi e traffici. Da mesi girano informazioni su estremisti che sono stati in grado di muoversi pagando una tangente. Se hai dei contanti riesci a trovare una strada. Per scappare, ma anche riunirti ai fratelli di lotta. Lo Stato Islamico, da oltre un anno, ha trasferito ingenti somme di denaro in Turchia utilizzando cambiavalute di fiducia, persone che garantiscono l’arrivo di soldi sulla base di un impegno e di una stretta di mano. Un bottino con il quale alimentare la sua spinta locale e magari rimettere in moto la filiera che ha portato piccoli nuclei ad agire nelle nostre città.