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 2019  ottobre 06 Domenica calendario

Su "Il paradosso della bontà" di Richard Wrangham (Bollati Boringhieri)

La bontà umana ha un lato oscuro. «Sono stati gli assassini a portarci sulla soglia della saggezza», sostiene Richard Wrangham, il primatologo inglese in cattedra ad Harvard, nel suo nuovo perturbante libro Il paradosso della bontà (Bollati Boringhieri). La tesi prende le mosse dall’analisi comparativa del comportamento dei nostri due cugini più prossimi, scimpanzé e bonobo. I primi manifestano accessi frequenti di violenza, i secondi sono più pacifici: perché?

L’antenato comune tra loro era più simile a un grosso scimpanzé. Poi, intorno a un milione di anni fa, il fiume Congo separò le due popolazioni e quelli rimasti a sud, in assenza di competizione con i gorilla, divennero più piccoli, meno aggressivi e meno ossessionati dalla posizione sociale. Così si diversificarono i bonobo, la cui vita di foresta era meno grama. Il gioco e l’erotismo presero via via il posto dell’aggressività come modulatori delle relazioni sociali e tutto lascia pensare che nel corso del tempo questi primati si siano addomesticati da soli, cioè che vi sia stata una selezione positiva dei maschi più docili e socievoli.

Nei suoi studi in Africa, Wrangham ha scoperto che nell’evoluzione umana è successo lo stesso: ci siamo auto-addomesticati, favorendo gli individui più tolleranti e pacifici. In pratica siamo la versione addomesticata dei nostri progenitori, un’idea settecentesca di civilizzazione che risale a Johann Friedrich Blumenbach e oggi rinasce grazie a nuove evidenze. Una serie di caratteristiche fisiche non adattative sono infatti tipiche di tutte le specie domesticate: si chiama «sindrome da domesticazione» e include orecchie pendule, code arricciate, pelo maculato, muso schiacciato, minori differenze tra maschi e femmine, riduzione dei denti e della stazza. Alcuni di questi segnali biologici (gracilità, femminilizzazione del viso, conservazione di tratti giovanili) sono presenti nei bonobo e sono progressivamente emersi anche in Homo sapiens a partire dalla sua origine in Africa fra 200 e 300 millenni fa. È la prova che, in assenza di un allevatore, noi e i bonobo ci siamo ammansiti da soli, migliorando le capacità di cooperazione.

Eppure siamo capaci anche di violenze terribili e premeditate, come gli scimpanzé. Prendendo qualcosa da entrambi i nostri cugini scimmieschi, abbiamo ereditato una contraddizione. Il paradosso è che socialità e aggressività nella specie umana sono due facce della stessa medaglia. Secondo Wrangham, auto-addomesticandosi gli esseri umani hanno ridotto l’aggressività reattiva (come i bonobo), cioè quella impulsiva, a caldo, frutto di rabbia e frustrazione, rivolta spesso verso membri del loro stesso gruppo. In compenso, i nostri antenati hanno coltivato una spiccata aggressività proattiva, rara fra gli altri animali, cioè quella a freddo, intenzionale e pianificata, messa in opera solitamente da coalizioni di maschi sia contro chi disobbedisce alle norme sociali all’interno del gruppo sia contro estranei di altri gruppi.

Se i soggetti più arroganti e prepotenti vengono puniti dai loro simili, l’aggressività impulsiva viene tenuta sotto controllo. Nei bonobo la sanzione sociale proviene dalle femmine, che collaborano tra loro per placare i maschi più esagitati. Negli umani, sostiene Wrangham, il controllo sociale e la conseguente auto-domesticazione si sarebbero invece manifestati attraverso l’uccisione degli individui antisociali (e l’eliminazione dei loro geni) da parte degli altri maschi coalizzati.

Prima che fossero inventate le carceri e la polizia, la pena capitale fu la forza selettiva che ci addomesticò, rendendoci più docili ed egualitari.

Con la sua inquietante «ipotesi dell’esecuzione», Wrangham indulge in un cupo realismo: siamo umani grazie a pene capitali, conformismo e violenza istituzionalizzata. L’unico modo per fermare i bulli è la punizione esemplare. Non bastava la cattiva reputazione. Legge e ordine sono nati dal linciaggio del reprobo, che pare essere un universale umano. Ma se così fosse, come si sono evolute a loro volta le pressioni sociali? Se i malfattori venivano giustiziati dopo che si erano già riprodotti, i loro geni sopravvivevano? E perché la pena capitale non è stata, in tempi storici almeno, un deterrente contro i comportamenti antisociali? Non troviamo le risposte nel bel libro di Wrangham. Resta il paradosso: nella guerra organizzata e armata tra gruppi, noi siamo i campioni del regno animale, salvo poi essere assai più pacifici di tutti gli altri all’interno delle nostre comunità.

Se l’assassinio del deviante e la violenza di gruppo sono retaggi antichi dell’umanità, non per questo sono giustificabili oggi, tiene a precisare il docente di Harvard. Anzi, dobbiamo mitigare queste tendenze così come combattiamo le malattie. Ma sarebbe illusorio negare l’importanza che hanno avuto nel plasmare la socialità umana.

Nella parte finale del libro la scienza cede però il passo alle speculazioni. Non manca l’ennesima ipotesi sull’estinzione dei robusti Neanderthal: secondo Wrangham non erano auto-addomesticati come noi, dunque una maggiore aggressività istintiva minava le loro capacità di cooperazione. In Homo sapiens, invece, violare le norme sociali divenne un crimine punito con morte o emarginazione. Per scongiurare questo pericolo, e sopravvivere, si diffusero le emozioni e i giudizi morali.

La teoria di Wrangham non guarda alla natura come a un alibi, ma al contrario esalta la responsabilità individuale. Potendo biologicamente fare il bene e il male al massimo grado, la scelta concreta e contingente di fare l’uno o l’altro dipende caso per caso solo da ognuno di noi. Angeli e demoni insieme, possiamo cooperare per il bene e per il male. Siamo una specie ambivalente di «guerrieri pacifici», in bilico tra virtù e violenza. Ma quelle predisposizioni duali, abiette o premurose, non sono incise in modo ineluttabile sulla dura pietra della nostra «natura». Sono piuttosto potenzialità inscritte nel nostro chimerico patrimonio ancestrale fatto di crudeltà e gentilezza. Come tali, sono attivate in un senso o nell’altro dagli stimoli culturali e dai contesti sociali delle nostre esperienze.

Il problema è che una specie così ambigua oggi ha acquisito un enorme potere, dunque è pericolosa. Intanto, grazie all’evoluzione scopriamo che una domanda classica della modernità, se siamo buoni o cattivi per natura, è priva di senso. Avevano torto sia Rousseau sia Hobbes. Non siamo né «buoni per natura» e poi corrotti dalla civiltà e da peccati originali, né «cattivi per natura» e poi corretti dall’educazione e dalla società. O forse avevano ragione entrambi.