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 2019  ottobre 09 Mercoledì calendario

L’Italia perde la partita delle lavatrici

C’è la cronaca: questa mattina alle 9 a Palazzo Chigi i sindacati incontreranno Giuseppe Conte per il caso Whirlpool a Napoli. C’è la storia, perché l’Italia industriale è stata edificata su quattro pilastri: l’auto, la chimica, la meccanica strumentale e, appunto, il bianco. E c’è il futuro: denso di incognite per l’intero comparto.
I frigoriferi, le lavatrici e le lavastoviglie: fino agli anni Novanta, il 45% degli elettrodomestici europei veniva prodotto in Italia. Ancora nel 2002 producevamo 30 milioni di pezzi, scesi ora sotto la soglia psicologica e strategica dei 10 milioni: meno del 10% di quanto prodotto in Europa. Il comparto è sottoposto, in Italia, a pressioni violentissime.
La decisione di Whirlpool di interrompere le attività nell’impianto di Napoli non è soltanto l’effetto della perdita di redditività della multinazionale americana e della conseguente decisione di ridurre la produzione europea di lavatrici. Si tratta anche di una scelta – drammatica per gli oltre 400 lavoratori e per le loro famiglie, entrate nella terra incognita di una ipotesi di cessione a una società di diritto svizzero chiamata PRS – coerente con la traiettoria di lungo periodo di un settore ad alta intensità di lavoro che, oggi, appare strutturalmente poco compatibile con la forma manifatturiera europea.
A mostrare il profilo deteriorato – al limite dell’antistorico – di questo settore nel nostro Paese è l’analisi comparata compiuta per Il Sole 24 Ore dalla Fondazione Ergo, che ha lavorato sui meccanismi di funzionamento e sulle performance di diciotto stabilimenti europei: cinque tedeschi, sette italiani, quattro spagnoli e due della repubblica ceca. «Il primo punto che emerge – osserva Gabriele Caragnano, partner di PricewaterhouseCoopers e direttore tecnico della Fondazione Ergo – è che, in tutto il mondo, il settore del bianco risulta meno plasmabile per opera dei cambiamenti della modernità rispetto a quanto non sia, ad esempio, l’automotive industry. I modelli organizzativi, le nuove forme di logistica, l’incremento della componente di servizi e la trasformazione degli elettrodomestici in oggetti intelligenti non hanno cambiato la sua regola essenziale: il costo del lavoro è fondamentale, perché la componente manuale nelle linee di montaggio è preponderante. Oggi, o meglio negli ultimi trent’anni, è ed è stato così». In Italia, dove gli addetti diretti rimangono 36mila, il costo per ora lavorata è di 50,7 euro. In Germania, dove gli addetti diretti restano 49mila, è di 85,6 euro. Peccato che in repubblica ceca, dove l’industria del bianco tedesca ha creato una sorta di doppione di se stessa a costi spaventosamente più bassi, sia ancora adesso – nonostante l’incremento degli ultimi anni – pari a 15 euro all’ora. Ecco perché l’industria del bianco della Germania non sta sperimentando un deterioramento paragonabile a quello italiano: le imprese tedesche hanno collegamenti strettissimi con le fabbriche dell’Europa dell’Est e, così, mediano su costi operativi e costi strutturali.
Per capire la natura – fisiologica o patologica – di un sistema industriale, occorre dissezionare il suo corpo adoperando il bisturi della produttività. Secondo le stime della Fondazione Ergo, ponendo al livello 100 la produttività degli stabilimenti italiani, la produttività tedesca è a 106 punti, quella ceca è a 120 punti e quella spagnola è a 127 punti. Questo indice di produttività è depurato dal costo del lavoro ed è determinato dalla miscela fra l’efficienza e il metodo di lavoro, fra l’organizzazione e la componente tecnologica della fabbrica. «Da questo punto di vista – nota Gianluca Ficco, responsabile del bianco per la Uilm – esiste un margine di significativo miglioramento. Il salto evolutivo va compiuto adesso. L’industria del bianco italiana è sottoposta, da almeno venti anni, a pressioni molto intense. Fino agli anni Novanta le nostre imprese si sono avvantaggiate della svalutazione competitiva della lira. Poi, negli anni Duemila sono diventate competitive le fabbriche dei Paesi dell’Est. La Polonia, e l’allora Cecoslovacchia, sono diventate la periferia industriale della Germania. Non solo con un costo del lavoro molto basso, ma anche con monete nazionali deboli, svalutabili rispetto all’euro. Esattamente come capitava, a noi, ai tempi della lira».
Dunque, esistono elementi strutturali che superano le condizioni dei singoli noccioli duri industriali: Electrolux impegnata a compiere un upgrading strategico incentrato sullo stabilimento di Susegana (vicino a Pordenone), i cinesi di Haier che hanno comprato la Candy della famiglia Fumagalli, in una uscita del capitalismo italiano dal Novecento simbolicamente significativa tanto quanto l’acquisizione della vecchia Indesit dei Merloni da parte della Whirlpool che, peraltro, assorbendo l’antico gruppo di Fabriano non è riuscita a evitare la cannibalizzazione dei marchi.
Questi elementi strutturali sono collassati nel momento in cui ogni equilibrio europeo è venuto meno. Per questa ragione, adesso, l’industria del bianco si trova sospesa fra il non riuscire a trovare un punto di rimodulazione fra il costo del lavoro, che è determinante, e l’innovazione, che ancora non esiste veramente. «Nella quotidianità – nota Caragnano –, dato che l’immateriale organizzativo e tecnologico è poco penetrato negli stabilimenti, la forza di una fabbrica rispetto alla debolezza di un’altra è fatta tutta di lavoro e di linee produttive strizzate come limoni». In questo senso, dunque, la deregolamentazione e la desindacalizzazione degli impianti spagnoli e cechi producono una forma di produttività con un’intonazione brutale e primitiva: l’essenza manifatturiera del bianco rimane nel lavoro di montaggio fatto a mano, tanto più è “selvaggio” tanto più si alza la produttività.
Siamo, dunque, a un punto di svolta. L’alternativa è fra lasciare spegnere le luci degli elettrodomestici o provare, invece, a renderle più intense. «Il costo per ora produttiva lavorata è fatto in parte di salario nominale – dice Caragnano – ma è fatto anche di miglioramenti organizzativi e di innovazioni tecnologiche che oggi sono più sulla carta che nella realtà. Come Fondazione Ergo abbiamo calcolato che il costo per ora produttiva lavorata, nel nostro Paese, potrebbe tranquillamente scendere da 50,7 euro a 39,2 euro».
Per la manifattura e la società non sono soltanto numeri. Sono anche posti di lavoro. Capacità produttiva da riconvertire. Stabilimenti da fare uscire dall’obsolescenza. Servono dosi di innovazione da cavallo. Serve la volontà di fare tutto questo. Per non perdere un altro pezzo dell’Italia industriale.