La Stampa, 9 ottobre 2019
Ligabue, il catering nato da una ferita in guerra
Ogni tanto occorre fermarsi: se siamo andati troppo avanti, bisogna aspettare che le nostre anime ci raggiungano. È il monito dei portatori Aymara, una popolazione del Sudamerica che vive intorno al lago Titicaca: una delle tante frequentate dal veneziano Giancarlo Ligabue, il re del catering scomparso quasi cinque anni fa, nella sua seconda vita di appassionato archeologo, etnologo e paleontologo. Se ne è ricordato il figlio Inti, avuto dalla moglie boliviana e battezzato con il nome del dio Sole nella religione incaica, che è oggi alla guida del Gruppo Ligabue e per celebrarne degnamente i cento anni ha pensato bene di fermarsi a guardare all’indietro un secolo di storia, per rispecchiarsi nello spirito delle origini.
È questo il senso della mostra «La grande impresa», aperta fino al 3 novembre a Venezia nella Scuola Grande della Misericordia. Attraverso documenti scritti, foto, filmati, oggetti significativi, apparati multimediali è ripercorsa l’avventura della più antica tra le aziende di catering ancora in attività, che oggi serve 40 milioni di pasti all’anno, dà lavoro a oltre 7700 dipendenti in 14 Paesi, gestisce 300 navi e ne rifornisce 6000, oltre agli aerei, alle piattaforme petrolifere off shore, ai siti di estrazione e ai cantieri remoti, e che nell’ultimo decennio, grazie alla ristrutturazione operata da Inti, ha superato una grave crisi chiudendo il 2018 con un fatturato in crescita dell’80% rispetto al 2009. Ma, come spesso accade, questa cavalcata ha un piccolo, piccolissimo inizio, ed è una storia esemplare di imprenditoria italiana in cui si mescolano l’intraprendenza, l’intuizione, la propensione a guardare lontano, la fortuna, anche, ma pure l’abilità nello sfruttare le occasioni offerte dal caso.
All’inizio di tutto, dunque, c’è Anacleto, un ragazzo del 1894, non veneziano ma reggiano, come rivela il cognome Ligabue. Se fosse nato qualche decennio fa nella Silicon Valley, avrebbe cominciato da un garage e sarebbe diventato un protagonista della rivoluzione digitale. Invece è venuto al mondo in una frazione che si chiama Villa Argine, unico sopravvissuto di sette figli di un muratore. Ha la terza elementare (conseguirà la licenza soltanto a 37 anni: in mostra il suo tema d’esame), e dopo avere lavorato come garzone del padre e poi facchino riesce a farsi assumere come cameriere nella Compagnia dei vagoni ristoranti. È già una premonizione. Ma prima c’è il servizio di leva, e nel 1915 la Grande guerra.
Anacleto è arruolato tra gli Arditi, la fanteria d’assalto del Regio esercito, e viene spedito sull’Isonzo. Dopo tre mesi al fronte, in agosto, la prima svolta, l’incidente che diventa un’opportunità. La sua compagnia è tagliata fuori dal resto del reggimento e per comunicare con gli altri reparti bisogna attraversare le linee nemiche. Viene sorteggiato un soldato, ma è un padre di famiglia, e Anacleto si offre al posto. Esce dalla trincea, corre all’impazzata sotto il fuoco degli austriaci, viene colpito a una gamba e con il femore spappolato riesce a condurre in porto la sua missione. Quando guarisce non è in grado di ritornare al fronte e viene assegnato per un paio di anni alla mensa ufficiali di Venezia. Ed è qui che coglie la sua occasione.
La città è zona di guerra, bombardata dagli idrovolanti nemici, gli approvvigionamenti sono difficili, manca di tutto. Anacleto si dà da fare con le sue conoscenze giù al paese, in Emilia, e in breve a Venezia cominciano ad arrivare salumi, parmigiano e prodotti della terra. Finita la guerra, continua a gestire la mensa ufficiali. Ma non gli basta: apre un negozio a San Marco e poco dopo un altro a Rialto. La ditta «Ligabue Anacleto» inizia a operare il 1° luglio 1919 e a metà mese viene registrata alla Camera di Commercio veneziana «pel commercio di formaggio, burro e salumi emiliani». Cibi genuini, reperiti a prezzi ragionevoli: sarà il principio ispiratore della sua attività imprenditoriale.
Ma da cosa nasce cosa. Alla mensa ufficiali, divenuta il circolo più ambito di Venezia, Anacleto, che nel frattempo si è sposato con una ragazza delle sue parti e ha avuto una prima figlia, conosce Gualtiero Fries, un armatore, presidente della Società Veneziana di Navigazione, che gli propone mettersi in affari con lui. Nel 1926 la motonave Mauly, che copre la rotta Venezia-Calcutta, è la prima a essere rifornita da Ligabue. Altre seguiranno a breve. E qui Anacleto concepisce l’idea innovativa destinata a fare della sua ditta una grande impresa: non si limita più a consegnare le derrate alimentari, ma assume per sé il rischio dell’appalto navale, provvedendo in proprio al cibo, al servizio di cambusa, alla cucina di bordo e all’addestramento dei cuochi. Un problema in meno per l’armatore, un vantaggio per Ligabue che può controllare tutto il sistema e realizzare economie di scala. Ma anche, soprattutto, un beneficio per l’equipaggio, che finalmente può disporre di un vitto fresco e sano, conservato in moderni frigoriferi e cucinato sul momento, e di pane cotto nei forni di bordo al posto delle vecchie gallette.
Gli appalti crescono di numero, fino a 130 alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Anacleto prende accordi con i fornitori locali nei diversi scali, acquista in tutto in mondo, dove trova prodotti buoni a prezzi convenienti, fa in modo che le navi non viaggino mai vuote. Non parla l’inglese, ma da Venezia organizza e sorveglia tutto.
Superato il disastro bellico l’impresa riparte, amplia le proprie strutture veneziane, apre nuove filiali, moltiplica gli appalti. Ma sebbene stia diventando un gigante nel suo settore, è vissuta all’interno come una grande famiglia, nel clima un po’ paternalistico ma in fondo solidale dell’epoca. È l’idea della responsabilità sociale. Anacleto fa costruire a Mestre un Villaggio Ligabue per i suoi dipendenti, torna tutti gli anni a Villa Argine con pacchi dono per i bambini e aiuti per la scuola elementare, e realizza una Casa della Carità per anziani non autosufficienti, mentre a Venezia si prende cura dell’Istituto Scilla per orfani di guerra. Parallelamente si dedica al mondo dello sport, diventa presidente della Reale società canottieri Bucintoro e vicepresidente del Venezia calcio che dopo molti anni torna in serie A.
Il figlio Giancarlo, che gli succede alla sua morte nel ’71, ne eredita la passione sportiva, presidente per 15 indimenticabili stagioni della Reyer che riporta ai vertici del basket italiano. Ma sono in primo luogo gli studi e le ricerche etno-paleontologiche a catturarlo, ogni anno per lunghi mesi lontano da Venezia, a caccia di ossa di dinosauro (come lo scheletro di Ouranosaurus nigeriensis donato al Museo di Storia naturale sul Canal Grande che il prossimo 30 ottobre gli sarà intitolato) e di culture altre. Un uomo colto, entusiasta, di interessi molteplici, fondatore del Centro ricerche Ligabue (oggi Fondazione che organizza annualmente importanti mostre), ma anche un sagace imprenditore che ha saputo dare una dimensione compiutamente internazionale all’azienda. E lo ha fatto proprio mettendo a frutto i contatti sviluppati durante le sue missioni in giro per mondo. Per questo oggi il nipote del fondatore può dire che «non celebriamo soltanto un’impresa, ma cent’anni di fattore umano»: Inti Ligabue è sereno e fiducioso, perché l’azienda di famiglia non ha mai lasciato indietro la sua anima.