Corriere della Sera, 9 ottobre 2019
La Cina censura il basket Usa
PECHINO Per chi ancora non credesse che lo sport è politica e anche geopolitica ecco la guerra della pallacanestro per Hong Kong. Il caso è stato fatto scoppiare dal boss della gloriosa squadra di basket americana Houston Rockets. Su Twitter domenica Daryl Morey aveva scritto: «Combattere per la libertà. Dalla parte di Hong Kong», proprio lo slogan dei ribelli dell’ex colonia britannica.
L’associazione basket cinese ha reagito sospendendo la collaborazione tecnico-commerciale con i Rockets, seguita a ruota dall’azienda di articoli sportivi Li Ning, che utilizza come testimonial diversi campioni Usa. Ha ritirato la sponsorizzazione alla squadra di Houston la Shanghai Pudong Development Bank. Una punizione che costerà un mucchio di dollari.
Di fronte allo sdegno iroso di Pechino Mr Morey ha cambiato subito idea: ha cancellato il tweet e si è scusato: «Era solo una mia interpretazione personale di eventi complicati, dopo quel tweet ho avuto modo di sentire e valutare altre prospettive». E ci ha ripensato. Alla fine della dichiarazione di scuse la chiave di lettura: «Ho sempre apprezzato il sostegno dei nostri tifosi cinesi e degli sponsor... spero che chi si è sentito offeso capisca che non volevo».
Ma la Cina, forte del suo peso economico nel business sportivo, non si è accontentata. È partito il boicottaggio di Stato: la tv cinese ha cancellato la trasmissione delle partite pre-campionato di due squadre americane venute in Cina per sostenere il mercato miliardario della Nba in Asia. Dice un comunicato della tv di Pechino: «Qualunque commento che sfidi la sovranità nazionale e la stabilità sociale non rientra nel diritto di parola».
La Nba americana (National basketball association) ha un bacino di fan notevolissimo in Asia e in Cina in particolare, con 640 milioni di persone che guardano le partite su piattaforme streaming a pagamento, 300 milioni di praticanti cinesi, 4 miliardi di dollari di utili per le casse della lega Usa. E i Rockets erano nel cuore dei cinesi dal 2002, quando presero il gigante Yao Ming, il più grande campione nella storia della pallacanestro di qui.
L’autogol (autocanestro) non è solo dei Rockets. È intervenuto anche il commissioner Nba, il capo dell’Associazione, in un gioco di equilibrismo diplomatico.
Adam Silver ha detto che sì, il manager di Houston è padrone delle proprie opinioni, come ogni bravo americano, ma che il tweet a favore della protesta democratica di Hong Kong ha offeso i fan cinesi e creato «un evidente danno economico alla Nba».
Si è scusato anche James Harden, superstar dei Rockets, carico di ricchi contratti cinesi: «Amiamo la Cina», ha detto. Meglio smarcarsi, prendere come al solito le distanze, sostenendo che lo sport non ha niente a che fare con la politica.
Ma ovviamente non è così. A Washington il senatore repubblicano Josh Hawley ha accusato la lega del basket di «strisciare» davanti a Pechino e il candidato democratico alla presidenza Beto O’Rourke ha detto che la Nba «mette i profitti davanti ai diritti umani». A questo punto, nuova dichiarazione della Nba: «Difendiamo la libertà di espressione», ma senza citare Hong Kong.
Su Twitter si è fatto vivo con una vignetta Badiucao, disegnatore satirico cinese costretto a vivere in Australia: si vede un cestista Nba inginocchiato in preghiera sotto una bandiera rossa della Repubblica popolare cinese.