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 2019  ottobre 09 Mercoledì calendario

Intervista a Yuri Chechi

Il libro di cui non potrebbe fare a meno uscì l’anno prima del suo bronzo «inimmaginabile ma reale» ai Giochi di Atene del 2004: Shantaram , che vuol dire uomo di pace, scritto dall’australiano Gregory David Roberts. «Mi ha segnato profondamente». Venerdì Jury Chechi, l’uomo “ginnastica” dello sport italiano, il “signore degli anelli” che già prima di diventarlo amava le pagine di Tolkien, compie 50 anni.

Non è tempo di bilanci, la vita è un flusso, ma di osservazioni sul mondo e su ciò che non funziona: «Per la seconda volta la squadra maschile non si è qualificata per le Olimpiadi.
Ho anche letto strane cose: come se nessuno avesse capito il senso di questo rovescio. Mi chiedo perché manchi la giusta umiltà per ammettere che è stato un fallimento e per rimboccarsi le maniche. Sono stupito. Grandi le ragazze, ma sui ragazzi rifletterei. Come sul fatto che non vinciamo un oro maschile dal 2004».
Nel suo breve periodo di dirigenza cos’ha fatto per la ginnastica?
«Ero ancora troppo atleta nel cuore».
Allenerebbe?
«Non ne ho le caratteristiche. So cosa dovrebbe fare un atleta ma ci metterei un secolo a spiegarglielo».
Come festeggerà i 50?
«Avevo pensato a un weekend al Giglio con gli amici. Poi ci ho ripensato. Poteva essere la volta buona per ringraziare tutti quelli che sono stati importanti per me. Sa com’è, io non ci so fare granché con gli affetti. Sento tanto ma fatico a dimostrarlo e così negli anni qualcuno si è allontanato perché magari si aspettava di più da me.
Festeggerò in famiglia. Avrei fatto bene a dire grazie un po’ più spesso».
E il 14enne Jury che va via di casa per seguire una chimera?
«Mamma mia, ogni due giorni mi chiedevo: ma che ci sto a fare qui a Varese?».
È un caso o un lontano retaggio “sovietico” che papà Jury abbia chiamato i suoi figli Dimitri e Anastasia?
«Un caso. Però parlo russo con derive maccheroniche. E ovviamente a casa mia non votavano Democrazia Cristiana. Dimitri è pure alto. Forse non è mio...».
Lo Jury padre com’è?
«A casa non ci sono coppe, medaglie.
Vorrei che i miei figli fossero fieri del padre, non dell’oro di Atlanta ’96».
Fa ancora attività fisica?
«Vado in bici quando posso ma sono pieno di acciacchi come un normale 50enne».
Quanto misticismo nello sport?
«Tanto. Ma è la vita a essere mistica di suo. E ognuno di noi persegue il suo dettato interiore. Io non sono un credente, ve lo garantisco, però mi sento vicino a tanti di quei pensieri religiosi meno inquinati».
Comaneci o Biles?
«Oddio! Forse Comaneci. Anche per la sua vita fuori dallo sport».
Di cosa vive oggi?
«Mi occupo di pubbliche relazioni, ho la mia academy a Prato e un agriturismo a Ripatransone, vicino a San Benedetto del Tronto, dove produco vino da uve pecorino, passerina e rosso piceno. E poi cerco di essere felice».
Lo sport è così cambiato?
«Non molto tutto sommato. Lo stress c’era anche ai miei tempi: a volte ti tagliava in due. E quello che conta è sempre vincere o dare il massimo.
Inutile girarci intorno. Il resto è retorica da falsi libri cuore».
Con quale benzina si tirò fuori dalla buca prima di Barcellona ’92?
«Siamo riusciti a trasformare una criticità estrema in opportunità. Non bastava dire: l’affronto. Andava sfruttata. Col tendine d’Achille rotto dove sarei andato a parare? Trovata la soluzione: concentriamoci sulla “sospensione” degli anelli, dovevo staccarmi da terra. A un anno dall’incidente, ai Mondiali di Birmingham del ’93, mentre ormai al corpo libero ero diventato “una pippa”, dissi alla federazione: “Datemi gli anelli, ho l’esercizio pronto”. Vinsi l’oro. Era la mia strada, senza l’infortunio non l’avrei trovata».
E l’altro intoppo prima di Sydney?
«Molto più complesso. Il bronzo ad Atene 2004 vale quasi più dell’oro.
Per il prof. Perugia che mi operò al tendine brachiale, spezzato mentre facevo “una croce”, non era possibile che tornassi. Mi disse: “Lascia stare, Jury ” . Invece volevo essere io, come dice la poesia “Invictus”, a decidere la mia fine. E così avvenne. Tornato dalla gara, ancora al villaggio olimpico, con il bronzo sul letto, pensai: ecco, adesso sì che sono pronto. Per chiudere. E per sempre».