la Repubblica, 9 ottobre 2019
Un brano dell’autobiografia di Elton John
La mattina della cerimonia per la mia unione civile con David Furnish, mio compagno da dieci anni, ci svegliammo in una bellissima giornata invernale, soleggiata e secca. In casa, fra tutta la confusione, c’era una specie di magica atmosfera natalizia.
Alla fine del 2005 divennero legali le unioni civili di coppie dello stesso sesso. Io e David ne parlammo e decidemmo di essere i primi della fila. Il primo giorno in cui potevamo unirci civilmente era il 21 dicembre. C’era parecchio da fare. Decidemmo di festeggiare a Woodside con tre tendoni, ma la cerimonia si sarebbe tenuta in municipio a Windsor, lo stesso luogo dove il principe Carlo aveva sposato Camilla Parker Bowles. Sarebbe stato un evento privato, intimo: solo io e David, mamma e il mio patrigno Derf, i genitori di David, il nostro cane Arthur e quattro amici.
La sera prima, avevamo visto in TV le notizie sulle prime unioni civili in Irlanda del Nord – lì c’era un periodo d’iscrizione più breve – e sulle proteste che le coppie avevano incontrato appena uscite dalle cerimonie, con gente che lanciava farina e uova. Ero seriamente preoccupato: se succedeva a coppie normali, che genere di accoglienza avrebbe avuto una coppia gay molto famosa? David mi assicurò che sarebbe andato tutto bene: la polizia era consapevole delle minacce e aveva allestito un’area per i manifestanti, da dove non avrebbero rovinato la giornata. Ma, adesso, arrivavano notizie da Windsor che la folla si stava radunando lungo le strade e che c’era un’atmosfera di festa. Nessuno voleva aggredirci: al contrario, la gente si era presentata con striscioni, torte e regali.
Ero già stato sposato, certo, ma stavolta era diverso. Ero davvero me stesso, libero di esprimere il mio amore per un altro uomo in un modo che mi sarebbe sembrato incomprensibile quando mi ero reso conto di essere gay. Non ricordavo di essere mai stato così felice.
Proprio in quel momento entrò in scena mia madre, nei panni di una pazza sociopatica. Il primo indizio che qualcosa non andava fu quando arrivò a Woodside con Derf e si rifiutò di uscire dall’auto. Nonostante varie preghiere, rimasero seduti là, imperturbabili. Mia madre annunciò che non si sarebbe unita al convoglio e che non sarebbe nemmeno venuta a un pranzo privato in programma a Woodside dopo l’unione civile, e all’improvviso se ne andò.
Oh, fantastico. Il giorno più importante della mia vita, e su di noi incombeva uno dei malumori di mia madre, quelli che mi terrorizzavano da piccolo. Io stesso avevo ereditato parte della sua capacità di tenere il broncio. La differenza era che io la superavo in fretta: rendendomi conto di ciò che stavo facendo – merda, non mi sto solo comportando da idiota, mi sto comportando come mia madre –, correvo a presentare le mie scuse disperate a tutti gli interessati. Mamma non la superava mai, non si pentiva mai, non pensava mai di essere nel torto o di comportarsi male. Il massimo che si poteva sperare era una discussione feroce – in cui, come sempre, doveva avere lei l’ultima parola –, seguita da una tregua imbarazzata e precaria che durava fino all’esplosionesuccessiva. Con il passare degli anni, aveva elevato il broncio a un livello epico e meraviglioso. Era il Cecil B. De Mille degli scoppi d’ira, il Tolstoj del cattivo umore. Esagero solo un tantino. Parliamo di una donna che ha tolto il saluto alla sorella per dieci anni in seguito a una discussione il cui argomento era se zia Win avesse messo o no del latte scremato nel suo tè. Una donna che dopo una litigata con me e uno dei figli di primo letto di Derf era emigrata a Minorca. Piuttosto che fare marcia indietro o chiedere scusa, preferiva trasferirsi all’estero. Non ha molto senso tentare di ragionare con una persona così.
Osservai la sua auto percorrere il vialetto e mi ritrovai a dispiacermi che non fosse a Minorca. O sulla luna. Ovunque tranne che sulla strada per la cerimonia della mia unione civile che, avevo la terribile sensazione, avrebbe fatto del suo meglio per rovinare. Non rovinò la giornata: non ci riuscì. Ma, a onore di mia madre, riconosco che fece del suo meglio. Quando io e David ci scambiammo i voti, cominciò a brontolare a voce molto alta, coprendoci: quel posto non le piaceva e non riusciva a immaginare di sposarsi in un luogo del genere. Quando i testimoni dovettero firmare la licenza di unione civile, lei firmò, sbottò «È fatta, dunque», sbatté giù la penna e se ne andò. Era assurdo; il mio umore continuava a passare dall’euforia completa al panico per la sua prossima mossa. Sapevo per esperienza che tentare di parlare con lei avrebbe significato far esplodere una lite spaventosa che avrebbe rovinato tutto e, per giunta, magari davanti ai media di tutto il mondo o a seicento ospiti. Non mi entusiasmava l’idea che i servizi sull’unione civile più prestigiosa della Gran Bretagna raccontassero di Elton John e sua madre che intrattenevano la nazione urlandosi in faccia sui gradini del municipio di Windsor. (...) Scoprii la ragione di quel comportamento solo molto più tardi. Venne fuori che i genitori di David conoscevano il vero problema sin dall’inizio, ma non ce l’avevano detto prima della cerimonia per non innervosirci. Le avevano telefonato appena arrivati nel Regno Unito, essendo sempre andati molto d’accordo con mamma e Derf. Erano perfino andati in vacanza insieme. Mia madre aveva detto che dovevano collaborare per impedire l’unione civile. Non approvava che due uomini «si sposassero», come diceva lei. Tutti quelli con cui aveva parlato erano inorriditi alla sola idea. Avrebbe danneggiato la mia carriera. La mamma di David le disse che era pazza, che i loro figli stavano facendo qualcosa di straordinario e che anche lei avrebbe dovuto appoggiarli. Mia madre le attaccò il telefono in faccia.Ripeté la stessa battuta a me un paio d’anni dopo, nel mezzo di una lite furibonda. Che assurdità. Mia mamma era sempre stata intrattabile, ma mai omofoba. Mi aveva appoggiato quando le avevo detto che ero gay e non aveva battuto ciglio quando la stampa l’aveva assediata dopo che avevo fatto coming out su “Rolling Stone", dicendo ai giornalisti che ero coraggioso e che non le importava se ero gay o etero. Perché all’improvviso, trent’anni dopo, la mia sessualità era diventata un problema? Come sempre, penso che il vero problema fosse che non sopportava che qualcuno mi fosse più vicino di lei. Era sempre stata fredda con i miei ragazzi, ma adesso era salita di livello. Sapeva che con i miei ragazzi non potevo avere relazioni stabili: ero troppo incostante, per via di tutta la coca che sniffavo. Era sicura che il mio primo matrimonio non sarebbe durato, perché sapeva che ero gay. Adesso però mi ero disintossicato e stavo con un uomo di cui ero profondamente innamorato. Avevo trovato un compagno per la vita, e l’unione civile lo sottolineava. Non riusciva a sopportare che il cordone ombelicale venisse finalmente reciso. Non le importava nient’altro, compreso il fatto che finalmente ero felice. L’ idea di fare un tour insieme a Tina Turner fu una bella idea che si trasformò presto in un disastro. Mentre eravamo ancora in fase di progettazione, lei mi telefonò a casa, a quanto pareva con la precisa intenzione di dirmi quanto ero orribile e in che modo dovevo cambiare prima di poter lavorare con lei. Non le piacevano i miei capelli, non le piaceva il colore del mio pianoforte e non le piacevano i miei vestiti. «Indossi troppo Versace, t’ingrassa: devi indossare Armani» annunciò. Vedevo il povero Gianni rivoltarsi nella tomba alla sola idea: le case di Versace e di Armani si odiavano cordialmente. Armani diceva che Versace faceva vestiti volgari, e Gianni pensava che Armani fosse beige e noioso. Alla fine della telefonata scoppiai a piangere: «Sembrava mia madre, cazzo» mi lamentai con David.
Il nostro rapporto di lavoro, incredibile a dirsi, peggiorò ancora. Durante le prove, Tina non chiamava per nome nessuno dei musicisti: si limitava a indicarli e gridare «Ehi, tu!». Cominciammo a suonare Proud Mary. Era magnifica. Tina fermò la canzone, scontenta. «Sei tu» urlò, indicando il mio bassista Bob Birch. «La fai sbagliata. » Lui le assicurò che non era così e ricominciammo. Di nuovo, Tina ci fermò con un urlo. Stavolta era colpa del mio batterista.
Andammo avanti così per un po’, mentre ogni membro della band a turno veniva accusato di rovinare tutto, finché Tina scoprì la vera causa del problema.
Questa volta, il dito era puntato nella mia direzione. «Sei tu! Non la suoni bene!» Il successivo dibattito sulla mia capacità di suonare Proud Mary si animò piuttosto in fretta, prima che tagliassi corto dicendo a Tina Turner d’infilarsi la sua canzone del cazzo su per il culo e andandomene in fretta e furia.
Ai miei tempi ho fatto un sacco di scenate, ma ci sono dei limiti: c’è una regola non scritta secondo cui i musicisti non trattano mai di merda i loro colleghi.
Forse la sua era insicurezza. Ai suoi esordi l’avevano trattata in modo orribile, per anni e anni l’avevano strapazzata, picchiata e maltrattata. Forse questo aveva influito sul suo comportamento.
Andai nel suo camerino a scusarmi. Mi disse che il problema era che improvvisavo troppo, aggiungendo piccoli fill e volate al piano.
Ho sempre suonato così, è una delle cose che amo dei concerti. Ma Tina non la pensava così. Tutto doveva essere esattamente identico ogni volta; era tutto provato fino al più piccolo movimento.
Era ovvio che il tour non avrebbe funzionato, anche se in seguito facemmo pace: venne a cena a Nizza e lasciò un grande bacio con rossetto, sul libro degli ospiti.
Copyright 2019 © Elton John All right reserved © 2019 Mondadori Libri S.p.A., Milano Titolo dell’opera originale "Me"