La Stampa, 7 settembre 2019
Su "Pietro e Paolo" di Marcello Fois (Einaudi)
Trovarsi insieme di fronte alla morte. Trovarsi dentro la stessa paura. Trovarsi insieme nella scoperta dei sentimenti, del mistero delle cose. Pietro e Paolo cavano da una tana «quattro volpacchiotti esanimi». Il secondo stringe le labbra come se stesse per piangere; il primo pensa, guardando l’amico, «che l’infanzia non dura lo stesso tempo per tutti». Forse l’amicizia è questo: camminare insieme, mettersi a correre «fino a sputare i polmoni», scortandosi l’un l’altro, condividere a voce alta i sogni, le ambizioni. Fare un voto inginocchiati davanti alla stessa statua. Marcello Fois, raccontando con il nuovo romanzo, Pietro e Paolo, due «ragazzi del ’99», trova il tono, il respiro del classico. Vengono, i protagonisti, da due ceti diversi, o verrebbe da dire «specie»: sono il principe e il povero, il figlio dei padroni, il figlio dei contadini. Due che dovrebbero guardarsi da lontano. E invece superano i confini, giocano alla guerra in cortile, inciampano nel corpo di una ragazza, in emozioni nuove. Ma la storia che Fois racconta è riavvolta a ritroso, come un vorticoso conto alla rovescia, e questo è un modo per far sentire più forte al lettore il peso di ciò che chiamiamo – a posteriori – destino (parola che nel romanzo ricorre spessissimo).
Una formazione duplice, parallela, condensata nelle pagine precise, asciutte di Fois, e che ha il suo snodo più drammatico nella catastrofe della Grande Guerra. I due ragazzi del ’99 si arruolano, si ritrovano in trincea, dove si vive «sepolti pur essendo vivi», «nel vuoto di qualunque senso». Speranzosi e insieme disperati, la vita al fronte li spoglia di ulteriori differenze. Alla visita militare sono solo corpi, nient’altro: e prendono atto «di quanto multiformi potessero essere le fattezze fisiche, le linee delle nuche o delle ascelle, il disegno dei genitali, la distribuzione dei peli, la conformazione dei glutei, la proporzione dei polpacci e delle caviglie, la lunghezza dei piedi». Cercano qualche segno, oltre la materia. Nella rotta del volo di un uccello, come àuspici, in un ricordo che sembra una premonizione, in una qualche apparizione celeste, miracolosa: «Ci appare ciò di cui abbiamo bisogno, se ci crediamo». La guerra, a ogni modo, disperde i due amici. Ne riemergono stravolti – nel corpo e nella psiche – e diversi, irriconoscibili anche a sé stessi. Come se la loro vita avesse cambiato verso, come se il tempo fosse stato «un immenso vomere» in grado di ribaltare le loro esistenze.
Al cuore di Pietro e Paolo c’è il ritrovarsi imprevisto dei protagonisti: un incontro da sopravvissuti, ritornati a Nuoro da luoghi estremi. Più che una resa dei conti, una verifica: dell’essere vivi, di ciò che è ancora vivo in loro. Resta ancora una parte pura? Una parte innocente? O la viltà, l’istinto di salvarsi la pelle l’hanno pregiudicata? Quante promesse sono state mantenute e quante sono state tradite? Il dolore provato rende migliori o peggiori? «È necessario soffrire a dismisura per diventare adulti», scrive il narratore, assecondando il «dio delle storie», che di volta in volta lascia corda ai «cani del risentimento», a quelli della riconoscenza, o a quelli della rivendicazione. Necessariamente, Pietro e Paolo non sono più i ragazzini incoscienti che fanno il bagno in una tinozza davanti al caminetto acceso. Fois vuole capire se hanno tenuto fede – a loro stessi, al loro legame. Se hanno mantenuto fede «nel mondo, nell’amicizia, in Dio». Nel voto segreto fatto davanti a una statua di Santa Lucia.
È un libro bello e misterioso, fatto come al carboncino. Colpisce la concentrazione: la capacità di raddensare, far convergere tutto in un punto. Fois, abilissimo narratore di stirpi, qui concentra, appunto, in centocinquanta pagine parecchi livelli di vita. Quelli più concreti, e quelli che restano intangibili: «Da bambino non riusciva a spiegarsi il mistero dello stare al mondo. E quando pensava “stare al mondo” non si riferiva certo alla capacità di cavarsela, ma proprio al calpestare questa terra, una sfera rotante nello spazio infinito. Per qualcuno quello stesso esistere significava un atto di fede, qualcosa che lotta quotidianamente contro ogni logica. Ma, del resto, solo agli uomini pigri, che sono la maggior parte, interessa la logica: a tutti gli altri interessa misurarsi con ciò che non è immediatamente spiegabile».