Corriere della Sera, 8 agosto 2019
Su "Pietro e Paolo" di Marcello Fois (Einaudi) - con intervista all’autore
È ambientato ai tempi della Grande Guerra il nuovo romanzo di Marcello Fois, scrittore che si divide tra la natia Sardegna e Bologna, dove abita da anni e della cui vita culturale è uno dei protagonisti. È pubblicato da Einaudi e si intitola Pietro e Paolo (pp.160, euro 17,50), una storia tra due ragazzi degli inizi del secolo scorso, uno figlio di servi, l’altro di padroni. Leggiamo nelle note del lancio editoriale: «Lì, distesi a terra, rivolti al cielo di una tinta indefinibile, le parti si invertivano: lì Pietro sapeva cose che Paolo ignorava. Quel tempo era stato un immenso vomere che aveva ribaltato il terreno delle loro esistenze».
Fois, quando troveremo il romanzo in libreria? «Il 4 settembre, in concomitanza con il primo giorno del Festival della Letteratura di Mantova, dove lo presenterò. A Bologna ne farò una lettura, con musiche di Boosta, Davide Dileo, il tastierista dei Subsonica, il 17 settembre all’oratorio di San Filippo Neri».
In copertina si vedono due soldati in divisa dei tempi delle trincee e di Caporetto. «È un piccolo romanzo, questa volta. Ho provato a lavorare sulla sobrietà, sull’asciuttezza. I protagonisti sono proprio due ragazzi del ‘99 che si trovano a dover partire per la Grande Guerra e, una volta tornati in Sardegna, trovano che i loro assunti iniziali si sono capovolti».
Chi sono Pietro e Paolo? «Paolo è un ragazzo di buona, ricchissima famiglia; Pietro di una meno abbiente. Sono amici ma hanno tra loro un rapporto che riflette la loro relazione nella scala sociale. Da quella esperienza tornano rovesciati e proveranno a risolvere una questione che tra loro era rimasta sospesa».
In quale periodo del conflitto siamo? «Partono nel marzo del 1918, sono gli ultimissimi richiamati dopo la rotta di Caporetto e parteciperanno alla vittoria finale del generale Diaz, ottenuta anche grazie alla collaborazione dei francesi, con gli austriaci ormai stremati. Paolo torna a casa da eroe ferito sul campo, l’altro si trova di fronte a una faccenda un po’ ambigua, che non si capisce bene, che si risolverà tra loro due in un mattino di gennaio».
È un libro sull’amicizia? «È un libro sull’amicizia ma anche sulla fede».
Tra i personaggi troviamo una ragazza definita «una giovane acacia selvaggia»: bello. «Lucia è una fanciulla che ha un compito importante nella vicenda. E poi incontriamo anche una giovane irlandese che ha un ruolo di apparizione mariana. Ricordiamo che la Madonna di Fatima appare ai tre pastorelli portoghesi durante la guerra, e che subito dopo, nel 1919, arriva la mortale epidemia di spagnola…».
Sappiamo che ottenere da lei qualcosa di più che vaghi accenni alla trama è impossibile, perché crede fermamente che i libri vadano letti pagina per pagina e non annunciati. C’è, in questa storia del passato, qualche spunto per i nostri giorni? «C’è più di un’indicazione che si può riferire al presente. Sembra solo un romanzo storico ma in realtà ho voluto scrivere una parabola, ristretta ma assai avventurosa, che avesse suggestioni contemporanee, senza appiattirsi sull’attualità. Ho provato a fare un romanzo leggibile, molto classico se volete. Da tempo mi interessa costruire storie durature, perché mi sembra che ultimamente ci siamo incartati in narrazioni simili a vuoti a perdere».
A cosa si riferisce? «Ai tormentoni estivi, alle scritture da consumare. Per i titoli, basta guardare le classifiche. Il lettore forte sa cogliere le differenze, anche se io alla fine preferisco sempre un paese dove si pubblica troppo, anche a rischio di tanta brutta scrittura, a uno dove si pubblica troppo poco, per censura o per altro. Un lettore forte, comunque, sa cogliere le differenze. Il problema è che i brutti libri fanno male ai lettori deboli».
La Sardegna è ancora una volta l’ambiente di un suo romanzo. «Il rapporto tra la mia isola e il Carso è come la stipula della domiciliazione della Sardegna in Italia: diventa italiana grazie al sacrifico di quei 70-80 mila rappresentanti dell’esiguo popolo sardo. Insisto su questo punto, proprio in questa stagione in cui si chiacchiera molto, spesso a sproposito, di identità nazionale degli italiani, magari da contrapporre ad altri, da usare come un muro. Cerchiamo prima di capire in noi chi siamo. Una buona parte della nostra crisi deriva dal fatto che non sappiamo più chi siamo e da dove veniamo, abbiamo paura degli altri anche perché lo stato della nostra istruzione è penoso, e quindi la nostra capacità di discernere si fa minuscola».
Lei scrive di Sardegna, ma abita a Bologna. Come concilia queste due appartenenze? «Ho un rapporto abbastanza mobile. Stare sotto le Due Torri mi piace, l’ho scelto, non sono un emigrante e col lavoro che faccio potrei risiedere ovunque. Ho deciso di vivere qui e lì, insieme, la bilocazione. Torno spesso nell’isola, dirigo il Festival letterario di Gavoi. Ma stare fuori mi permette di capire certe cose con una chiarezza migliore. Collegando il grande fuori col dentro, la leggo più chiaramente. E comunque ci torno così spesso che non ho il tempo di sentirmene estraneo».