L’Economia, 7 ottobre 2019
Intervista a Dolce&Gabbana
In un trionfo di jungle, soggetti animalier e pizzo nero si sono lasciati alle spalle la settimana milanese della moda con l’ultima delle oltre 300 sfilate, tra Alta Moda e altre collezioni, che hanno marcato i 35 anni del loro sodalizio stilistico. È stata una nuova occasione non solo per dimostrare la loro creatività che sfida mode e tendenze, ma anche per fare emergere gli antichi saperi degli artigiani e delle 200 aziende terziste che lavorano per il gruppo. Una realtà che dà lavoro a circa 25 mila persone, tra terzisti e fornitori. Per Domenico Dolce, 61 anni, e Stefano Gabbana, 57, è però anche il momento per prendere il polso del mercato. «Siamo stati sorpresi da Paesi come Brasile e Messico che corrono molto più del previsto — dicono —. Ma anche la Cina si sta riprendendo. Dopo gli errori le cose si fermano ma poi tutto ricomincia. I nostri abiti restano un sogno tutto italiano per i nostri clienti nel mondo». Quando i sogni si traducono in business, i numeri dicono che Dolce&Gabbana è arrivata a 1,349 miliardi di ricavi, l’80% all’estero, e una rete di 220 negozi monomarca gestiti direttamente e 80 in franchising, più 300 clienti multimarca. L’ecommerce ora è uno dei traini: vale il 6% e l’obiettivo è arrivare al 15%.
La leggenda dice che non avete litigato mai nel lavoro in tutti questi anni. Mai pensato di andare ciascuno per la sua strada?
DOLCE: «C’è affetto, grande rispetto e stima. Abbiamo gli stessi occhi, vediamo le stesse cose, vediamo il ruolo dell’imprenditore nello stesso modo. E poi, noi siamo un po’ come la Coca Cola, non possiamo scindere i due nomi, da separati il nostro lavoro perderebbe senso».
Come avete iniziato?
DOLCE: «Ci conosciamo dal 1980, due anni dopo abbiamo iniziato assieme come consulenti per clienti come Marzotto, Max Mara, Lebole, facevamo 13 consulenze a stagione. Forse non sempre le persone sono state oneste con noi. Ma noi avevamo un sogno. Lavoravamo assieme nello studio dello stilista Giorgio Correggiari, ci siamo staccati e nel 1984 abbiamo fondato la Dolce&Gabbana. Io ero figlio d’arte, mio padre faceva il sarto a Polizzi Generosa dove sono nato, mia madre dava una mano nell’emporio di abbigliamento e tessuti».
GABBANA: «Siamo partiti con 2 milioni di vecchie lire, mettevamo via i soldi per rinvestirli nell’attività, nel nostro progetto di bellezza. All’inizio ci consigliavano tutti di farci prestare i soldi dalle banche ma l’idea ci faceva paura. Così, tutto quello che abbiamo fatto lo abbiamo finanziato da soli e siamo molto felici. Arrivo da una famiglia semplice. Mia madre faceva la portinaia e mio padre l’operaio a Milano. Loro mi hanno tramandato valori forti che ho trasmesso all’azienda. Non immaginavamo di costruire tutto questo, volevamo solo confezionare dei bei vestiti, facendolo bene, con amore. Tutto quello che ci circonda lo abbiamo realizzato noi, dalle tazzine, ai quadri fino ai mobili e ai vestiti».
Come funziona il sistema Dolce&Gabbana?
DOLCE: «Il punto di partenza è un modello di artigianato e industria, tradizione che cuce assieme innovazione, digitale e tecnologia. Diamo direttamente lavoro a circa 5.500 persone, che diventano circa 25mila con l’indotto. Abbiamo quattro poli produttivi nel gruppo, tutti in Italia, a Legnano 745 persone, a Incisa Val d’Arno 380, a Lonate Pozzolo 300 e a Sarmeola di Rubano 178. È il cuore dell’attività, la parte creativa, artigianale e umana sulla quale abbiamo investito fin dal 1984, quando è nata la Dolce&Gabbana. Ai nostri manager diciamo sempre che possono tagliare dovunque ma non lì perché quello rappresenta lo spirito dell’azienda, la cultura, la storia e il sogno che vogliamo trasmettere, come impresa e come famiglia. I manager hanno una visione di breve termine, non gestiscono un’impresa di loro proprietà, puntano ai risultati e anche ai loro guadagni. Ma non sono imprenditori. La guida operativa del nostro gruppo è affidata ad Alfonso Dolce, mio fratello, un manager di famiglia».
GABBANA: «A noi interessa l’anima dell’azienda. Siamo unici perché abbiamo costruito un‘impresa indipendente che non appartiene ad alcun gruppo, ormai ce ne sono pochissime nel mondo».
Producete davvero tutto in Italia?
GABBANA: «Assolutamente sì. Per noi sono cruciali le 200 aziende terziste che lavorano per il gruppo. Ci è anche capitato di acquisire alcune realtà perché c’era il rischio che fallissero e che noi perdessimo le loro competenze. Di recente è successo in Veneto, a Sarmeola di Rubano, con una realtà che produce i nostri abiti sartoriali e su misura».
DOLCE: «Ma c’è un trend nuovo, un ritorno dell’attenzione per l’artigianalità, lo si vede dall’interesse dei giovani per questo mestiere, molti di loro sono italiani. Fino a 5-6 anni fa era difficile trovarli. Allora all’interno del gruppo abbiamo creato le Botteghe di Mestiere, insegniamo a cucire, ricamare, stirare e la modelleria. Circa il 70-75% di quei giovani che hanno tra i 20 e i 25 anni vengono poi assorbiti in azienda. Abbiamo i nostri maestri interni e così teniamo in vita il mestiere e la tradizione».
C’è chi pensa però che per essere forti sui mercati globali sia indispensabile arrivare a una certa dimensione di fatturato, anche nel settore della moda dove ci sono grandi gruppi come Lvmh.
DOLCE: «Non tutti i Paesi sono uguali, l’errore più grande è accumunare il nostro agli Stati Uniti o alla Francia. L’Italia è fatta di eccellenze irripetibili, di piccole e medie imprese, di città come Venezia e Firenze, ora anche Milano, di prodotti unici come il Parmigiano e realtà come la Ferrari e la Ferrero. L’Italia è una multinazionale che comprende migliaia di marchi».
GABBANA: «L’Italia è fatta di Caravaggio, Leonardo, Galilei. Ha un Dna artistico che non esiste altrove. Non dobbiamo avere il complesso di essere italiani, perché chiunque nel mondo cerchi bellezza viene nel nostro Paese. Il nostro compito è rilanciare la creatività, che è la nostra vera ricchezza, come ai tempi del Rinascimento. Dovremmo smetterla di volere essere un Paese-azienda, come alcune economie basate sul mass-market. La nostra fortuna sono gli artigiani, dobbiamo sostenerli. L’Italia li ha troppo spesso messi da parte per inseguire un modello che non è il suo».
La Brexit, il rallentamento in Germania, i dazi tra Stati Uniti e Cina quanto influiscono sulla vostra attività?
GABBANA: «Andiamo benissimo in Brasile e Messico. Se c’è rallentamento in certi mercati noi compensiamo con la crescita in altri. Un reset dei consumi è sempre da mettere in conto a livello globale».
Come vi immaginate il futuro del gruppo? Ipotizzate un passaggio generazionale per preservare il vostro lavoro e le persone che ci lavorano?
GABBANA: «La nostra idea è proprio di lasciare spazio agli altri che lavorano con noi, dipendenti e famiglia. Il mio modello è Hermès, dove la dinastia è tornata in forza al timone e non si è affidata ad altri stilisti. Oppure, in altro settore, come la Ferrero. Passano le generazioni e la famiglia resta. Noi lasceremo un Dna al nostro gruppo di lavoro, cioè ai nostri stilisti interni che sono il cuore dell’azienda e lavorano con la nostra piena fiducia. Poi c’è la famiglia, i fratelli di Domenico: Alfonso e la sorella Dorotea».
DOLCE: «Ho già due nipoti nel gruppo. Christian e Giuseppina, i figli di Dorotea, che hanno circa 40 anni. Il primo è a capo degli accessori mentre la seconda guida l’Alta Moda. Dopo di noi preferiremmo che non arrivasse lo stilista straniero che cambia tutto, il nostro desiderio è che ci sia continuità. Vogliamo lasciare dei codici alla famiglia che potrà reinterpretarli. Ma nello stesso tempo vorremmo lasciare spazio ai giovani che già lavorano qui affinché Dolce&Gabbana non diventi un marchio morto. Dopo di noi toccherà a loro raccontare nuove storie ai clienti, narrare se stessi con la loro personalità ma i nostri codici. Con disciplina e rigore».
Che cosa chiedete come supporto al Paese?
GABBANA: «Di essere un po’ più patriottico, ma senza colore politico. Non chiediamo aiuti ma la semplificazione del lavoro, l’eccesso di burocrazia. Vorrei che si desse supporto agli artigiani che non riescono a campare. Sono loro che realizzano per i nostri abiti gli uncinetti, fatti a mano soprattutto nel sud dell’Italia. Ma sono talmente tassati che a volte ci dicono di non poter più lavorare per noi. Questo vuol dire rinunciare all’eccellenza, fare un regalo ai Paesi che ci copiano e perdere il vantaggio competitivo».
Ci sono stati momenti di discontinuità nella strategia?
DOLCE: «Sì, ma non tra noi due. Nel 2010 quando abbiamo deciso di tagliare la linea D&G. Avevamo in testa da tempo di fare un po’ di pulizia tra i nostri marchi. Eravamo convinti che, per fare un salto nell’alta moda non potevamo mantenere una linea di grossa diffusione appunto come D&G. Era il 2010, abbiamo ingaggiato esperti di marketing, consulenti, speso un sacco di soldi. Erano tutti contrari a sacrificare una linea che aveva un enorme successo. Ci dicevano che l’alta moda era solo in Francia ed elencavano una serie di stereotipi banali».
GABBANA «Non avevano la visione. Noi sapevamo invece che l’intuizione era giusta. Abbiamo avuto il coraggio di rinunciare a 3 milioni di capi a stagione. In pochi anni abbiamo recuperato le vendite e non abbiamo licenziato nessuno. Volevamo alzare la percezione e il livello del marchio e il tempo ci ha dato ragione. In un grande gruppo non ce lo avrebbero lasciato fare perché i manager vorrebbero sempre i capi che hanno venduto di più nella stagione precedente. Anche quando le grandi realtà straniere ci volevano comprare abbiamo deciso noi di non cedere».
Quando è successo?
DOLCE: «Tra il 2002 e il 2005 sembrava di giocare al Fantastilista. Piovevano offerte miliardarie. Ci siamo detti, perché rischiare di essere mandati a casa? Non ci interessava andare in vacanza per sempre, volevamo lavorare. Poi trovo che la globalizzazione nella moda sia stata un fallimento totale. Noi per primi ci credevamo quando abbiamo iniziato con D&G. L’importante è invece mantenere le proprie origini ed esserne orgogliosi. Io sono nato a Polizzi Generosa, in Sicilia, porto con me quelle radici ovunque nel mondo e per quelle sono rispettato. La globalizzazione ha spazzato via i prontisti, le piccole aziende che producevano e davano lavoro in Italia, interi distretti tra Prato e Como sono andati in crisi, a Biella sono rimasti solo quattro produttori di tessuti. Bisogna salvare le aziende se vogliamo salvare anche le nostre periferie, creare occupazione e dignità. Se consumiamo prodotti realizzati in Paesi a basso costo della manodopera togliamo ai nostri figli la possibilità di avere un lavoro domani».
Chi vi dà la bussola sui mercati?
GABBANA: «I clienti prima di tutto. Parlando con loro è per esempio venuta l’idea di estendere alcune collezioni fino alla taglia 54 nella Donna e fino alla 60 nell’Uomo, perché nel mondo ci sono esigenze diverse e noi lavoriamo sullo scacchiere globale».
DOLCE: «Un’occasione unica sono le sfilate, un vero cantiere che muove circa 3 mila persone».