il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2019
Soldi veri per comprare vestiti virtuali
C’è l’Intoxica Coat, una sorta di trench rigido giallo canarino venduto a 30 euro; o i Silverhood Metallic Track Pants, una specie di tuta argentata metallica stile spaziale, a soli 20 euro. Ma per le stesse cifre si può addirittura avere un super piumino azzurro per i mesi freddi o degli occhiali fluorescenti a 10 euro. Sono i prodotti della linea Neo–Ex dell’azienda norvegese Carlings.
Azienda che ha talmente a cuore l’ambiente da aver deciso di produrre, oltre alla sua collezione normale, dei vestiti a impatto ambientale zero. Andati a ruba poco dopo l’uscita della collezione, grazie anche al coinvolgimento di alcuni influencer, come la russa Daria Simonova, entusiasta della “convenienza di questi vestiti eco–friendly”. Insomma, tutto fantastico, se non fosse per un dettaglio non trascurabile. Questi abiti non li potrete mai infilare da soli, lottando con la zip oppure piangendo in camerino perché vi stanno stretti. Infatti, sono abiti unicamente virtuali, creati appositamente per Instagram.
“Indossarli” è facile: basta andare sul sito dell’azienda nella sezione Digital collection, scegliere un prodotto, caricare un’immagine di sé, pagare, aspettare che un designer lavori il capo per adattarlo (vi starà comunque bene), e poi, una volta avuta la foto, condividere massicciamente sui social network. Intorno alla collezione digitale ruota tutta una campagna dell’azienda – secondo cui, tra l’altro, questi vestiti democratizzerebbero la moda, visto il prezzo – sul tema della sostenibilità ambientale: mentre scorrono foto di devastazioni ambientali e alluvioni, un video dalla musica ansiogena spiega il dilemma angoscioso nel quale si trovano i giovani di oggi. E cioè: esprimere la propria creatività online, con l’obbligo però di non mostrarsi due volte con lo stesso vestito, o proteggere il proprio futuro? Carlings risolve agilmente il lacerante dubbio, perché consente di cambiarsi d’abito più volte senza emissioni. E anzi, precisa l’azienda, i ricavi vanno ad aiutare l’organizzazione no profit Water Aid.
Di fronte all’idea di vestiti a impatto zero perché mai prodotti – è come se, per eliminare la Co2 che viene dalla produzione di cibo si vendessero alimenti virtuali – ci si sarebbe aspettato un filo di scetticismo. Al contrario: le riviste di moda, da Elle a Vogue e Cosmopolitan, e i fashion blogger di varie latitudini hanno salutato con entusiasmo l’idea (You can #save the Planet while you #influence!), definendo anzi gli abiti virtuali – così come le nuove app e giochi che consentono di vestire avatar con abiti firmati, con fatturati da capogiro – la moda del futuro e una sfida eccitante. Visto che, finalmente, il mondo sarà liberato dalla plastica contenuta delle microfibre e dalle emissioni dell’industria della moda. Nessuno che abbia ricordato che, anche se i vestiti saranno digitali, qualcosa di reale dovremo pur indossarlo uscendo di casa. O che abbia fatto notare che, forse, più che risolvere il problema dell’’impatto ambientale questa tendenza lo aggrava, dal momento che esiste un filo diretto che unisce la perdita di contatto con la materialità della vita e la devastazione del pianeta. Insomma no, un selfie con abiti finti non ci renderà né migliori né più eco. E, comunque, va bene salvare la Terra, ma possibilmente senza rincoglionirsi. O farsi raggirare. Perché in fondo, “Neo Ex” significa, letteralmente, il nuovo che non c’è. Come i famosi vestiti dell’imperatore, appunto, che nessuno, tranne un bambino, ebbe il coraggio di smascherare.