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 2019  ottobre 07 Lunedì calendario

Intervista a Claudio Marazzini, presidente della Crusca

Dal 1583 l’Accademia della Crusca veglia sulla lingua italiana. La difende dall’esterofilia provinciale, favorita dai politici stessi, per cui si procede per step, in virtù del jobs act così da far fronte ai competitor sconfiggendo la maladministration. Combatte il proliferare degli anglismi, ferma in dogana i vari «scendere il cane» o «uscire i soldi». Valuta se nuovi termini (ricordate «petaloso»?) possono entrare nel lessico corrente. E prima ancora, forma ricercatori in linguistica e filologia italiana, diffonde la conoscenza storica e critica della nostra lingua. Quand’è necessario, tira le orecchie: anche ai ministri. Come è accaduto al fu ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli, colta in flagrante nell’esigere che le domande di finanziamento universitario fossero redatte in inglese. 
Da sei anni il presidente dell’Accademia è Claudio Marazzini, che in questi giorni è reduce della manifestazione ravennate Dante2021, di cui l’Accademia cura la direzione scientifica.
Dante Alighieri è il letterato italiano più conosciuto e studiato internazionalmente. Esercita un fascino universale e senza tempo.
«È patrimonio dell’umanità. In lui ritroviamo una biografia straordinaria, perché, essendo uno spirito libero, pagò un prezzo alto alla litigiosità dei propri tempi. E in lui si ritrova anche il tema dell’Italia politica: fu il profeta di un Paese non ancora nato. C’è la visione religiosa, l’universalismo, la teologia, la scienza, la fantasia... Che cosa manca in Dante? Questo è il punto: è un autore completo e ricchissimo, per il quale s’è potuto inventare un festival multiforme come quello di Ravenna, in cui si trova sempre qualche tema nuovo da approfondire».
Oggi chi sono gli scrittori italiani d’arte? O meglio: esistono?
«Gli scrittori contemporanei sono spesso più superficiali e meno colti di quelli del passato, e meno legati alla tradizione italiana. Spesso hanno la testa in America. Certo non sono come Dante».
E difficilmente hanno una notorietà che varchi le Alpi.
«L’ultimo a raggiungere una vera fama internazionale è stato Umberto Eco: non a caso, aveva mantenuto saldi i legami con la cultura del passato, compresa quella medievale e latina. Ciò a riprova del fatto che la cultura raffinata può diventare uno strumento vincente, nelle mani di uno scrittore che sappia servirsene. Va comunque detto che forse la decadenza è inevitabile, oggi, nell’Italia in declino».
L’Italia non è più al centro di alcuna svolta culturale di peso.
«L’Italia è fuori dai giochi almeno dal Settecento, epoca in cui – però vantava ancora il ricordo dei propri primati, che avevano segnato Medioevo, Umanesimo, Rinascimento e Barocco. Oggi è davvero un passato remoto. I centri di innovazione si sono spostati altrove».
Quindi?
«Quindi siamo marginali. Oltre a essere esclusi dalle correnti importanti, dimentichiamo pure ciò che siamo stati. Abbiamo la memoria debole».
Dimentichiamo pure che la lingua italiana è fra le più belle. Gradevole a sentirsi, la lingua del canto appunto.
«Amo follemente l’italiano, ma non dobbiamo esagerare. Ognuno trova bella la propria lingua, che è legata all’uso che se ne fa. È pur vero che tanti stranieri la considerano la lingua degli angeli, come si legge in un bel libro sull’argomento. La dolcezza dell’italiano, più che da caratteri naturali e speciali, nasce dalla cultura. Petrarca diffuse in Europa un modello di lingua poetica armoniosa, un modello ideale che trovò prosecuzione nella lirica e nel melodramma. L’italiano divenne così espressione dell’arte e del bello, della poesia e della musica. Però con la storia dell’italiano musicale e poetico bisogna fare attenzione: il rischio è cadere nella trappola di una lingua-ghetto. Penso a quando, tra Seicento e Settecento, i francesi sostenevano che l’italiano era lingua di menestrelli e canterini, mentre il francese era la lingua del pensiero, della filosofia e dell’intelligenza». 
Tornando alla vostra attività, che tipo di richieste arrivano all’Accademia della Crusca? 
«La gente è molto interessata alla norma, alle regole linguistiche. Un’aspirazione positiva, benché talvolta ingenua. Quest’attività è ciò che più di tutto ci avvicina al pubblico. Per il resto, la Crusca edita libri molto raffinati, cura edizioni di testi antichi, promuove seminari, incontri, convegni, corsi che al largo pubblico interessano meno. Si rivolge alla scuola e agli ordini professionali».
Quanti sono gli accademici?
«Lo Statuto prevede 20 ordinari, 20 corrispondenti e 20 esteri. In realtà si supera il numero 20, perché si resta accademici a vita, ma dopo i 70 anni si lascia libero il posto in organico: infatti i soci ordinari sono ora 42, i corrispondenti sono 10, gli esteri 24».
E alla presidenza come si arriva?
«Votano gli Accademici. E certo all’incarico non si approda giovincelli, ma solo forti di una fama consolidata. Io sono attualmente al mio secondo mandato».
Siete anche un punto di riferimento per la scuola. Per questo le chiedo un commento sulla discrepanza fra i punteggi dell’Esame di Stato e i risultati Invalsi. I diplomati finali sono il 99,7% degli ammessi, eppure un ragazzo suo tre – dimostra l’Invalsi – non comprende un testo. 
«Abbiamo voluto che fosse l’accademico Rosario Coluccia ad affrontare la questione sulle pagine del nostro sito. C’è il sospetto che gli esami di Stato si svolgano con livelli di rigore diversi da sede a sede. Se questo accade, bisogna ribadire una verità: taroccare i risultati di un esame non giova alla società e nemmeno ai ragazzi. Chi bara, non si fa largo nella vita ma si illude di avere scoperto una scorciatoia. Vale anche per l’università. Io ho ormai chiuso con la docenza, visto che da novembre sarò in pensione, ma questo mi aiuta a parlare liberamente del tema, con un certo distacco». 
Procediamo.
«Lo studente ormai è considerato un cliente, e l’Università è diventata una specie di supermercato: più clienti ha, più vale. Però, c’è un problema: più fai sconti, più hai clienti. Offri insomma un prodotto di massa a prezzo inferiore. Altra considerazione valida per la scuola: oggi si tenta di assegnarle la soluzione di ogni tipo di problema, dall’educazione sessuale, alla lotta alla droga, alla buona creanza o che so io. Troppe cose, troppi compiti, spesso confusi e nebulosi. In realtà la scuola resta fondamentale per acquisire la capacità di comprendere davvero un testo. E di scriverlo. La didattica non può essere annegata nell’universo della socializzazione globale».
Da questo punto di vista gli adulti sono messi peggio dei figli. Dall’indagine Piaac 2013, che testa le competenze linguistiche e matematiche, risultiamo i meno alfabetizzati fra i 23 Paesi esaminati. 
«Il problema non è nuovo. Per anni, Tullio de Mauro ha analizzato questo terribile ritardo culturale. All’epoca dell’unificazione, nel 1861, solo il 2,5% dei cittadini era in grado di parlare italiano. È vero che c’è un’altra stima più ottimistica, di Arrigo Castellani, che porta la percentuale al 10%. Ma facciamo pure la media tra i due dati: si arriva comunque a numeri impressionanti». 
Un secolo e mezzo non è bastato per colmare il divario? La Cina sta mutando pelle in 30 anni.
«L’eredità negativa è enorme, non mi stupisce che il problema non sia stato ancora risolto. Sarebbe stupefacente il contrario. In Cina, poi, vige una disciplina di Stato severissima. Altro che il nostro allegro lassismo».
Non trova ardita la considerazione del neoministro dell’Istruzione Fioramonti che vorrebbe i test Invalsi più leggeri e moderni?
«Per la verità non mi sembra che l’Invalsi ponga difficoltà peregrine o prediliga forme arcaiche di valutazione».
Lei è pro-Invalsi, corretto?
«Assolutamente sì. Sono uno strumento di verifica esterna per valutare ciò che si è fatto e imparato a scuola. Capisco che strumenti e organismi di controllo non siano visti con simpatia, ma sono utili. Avere un’idea realistica della situazione è importante. Addirittura suggerirei di inserire l’esito dei test nella valutazione». 
I nostri ragazzi faticano a scrivere. Manca la pratica quotidiana, spesso si confrontano con 7/8 elaborati l’anno: pochi, non trova? 
«Vedo però che stanno aumentando le occasioni di scrittura, anche diverse dal classico tema: penso ai riassunti, alle analisi. Il tema chiede tanto lavoro all’insegnante, per i tempi lunghi della correzione, mentre il meccanismo della premialità dei docenti non tiene mai conto dello svolgimento al meglio delle attività basilari e fondative. Si premia sempre su progetti o altre cose del genere, non si va mai a testare la vera sostanza del mestiere». 
Perché l’insegnante bravo non è quello che s’inventa progetti...
«Il bravo insegnante è colui che svolge seriamente il proprio lavoro quotidiano, non quello che si inventa questo o quel progetto. Dobbiamo smetterla di premiare le iniziative segnalate per originalità e spesso eccentricità, per non dire balordaggine. È ora di incentivare la gestione del lavoro quotidiano. Tu fai sette scritti al quadrimestre anziché in un anno? Bene, te lo riconosco».
A proposito di scuola: la lettura integrale dei «Promessi Sposi» ha ancora senso?
«Nella scuola media di primo grado no, nemmeno per brani scelti. Nel biennio delle superiori è invece fondamentale: non esiste libro che abbia il medesimo valore emblematico, istruttivo ed educativo. Non alludo all’ideologia dell’autore o al fatto che fosse cattolico praticante, ma penso a un dato di natura tecnico-letteraria. I Promessi Sposi sono perfetti come meccanismo da smontare e analizzare, per comprendere come è costruito un romanzo, nel suo rapporto con la verità storica o la società, per vedere come si inventano i personaggi, come si fa procedere la storia, che parte ha l’autore. Senza contare la raffinatezza linguistica e la profonda e ironica saggezza dell’autore, cose che però si capiscono meglio da adulti».
Come trova la preparazione degli studenti che accedono al primo anno della facoltà di Lettere?
«Chi sta in università sa bene che è difficile aspettarsi una competenza culturale omogenea: gli studenti arrivano con competenze molto, troppo differenti. Non si sa mai se una cosa la sanno o non l’hanno neppure sentita nominare. E parlo di cose importanti, nozioni elementari di storia, di geografia, di letteratura. Le riforme, soprattutto le più recenti, sono state sempre molto attente agli elementi esterni della scuola piuttosto che ai contenuti reali dell’insegnamento». 
Lei è battagliero sul fronte degli anglismi. I più detestabili?
«Alcuni ormai sono talmente radicati che nemmeno li nomino. Non sono più sostituibili. Dunque avversarli sarebbe una battaglia contro i mulini a vento. Del resto, forme come Slow Food o Eataly alla fine possono trovare una giustificazione: si pensi a slow contrapposto a fast. Ma mi chiedo perché si debba parlare di street food o pet food. Cibo di strada, cibo per animali. Basta e avanza».
Dovremmo impegnarci di più nella difesa della nostra lingua.
«Della lingua e del patrimonio culturale. Cito questo episodio. Al Festival di Ravenna del 2018, il professor Wen Zheng, cinese, docente all’università di Pechino, ci spiegò che in Cina qualunque studente sa che è esistito Dante. Lo sa perché il suo nome compare nel Manifesto del partito comunista, lettura obbligatoria per i cinesi. Engels, nel Manifesto, dice appunto che Dante è l’ultimo dei medievali e il primo dei moderni. Se però chiedi allo stesso giovane cinese di dove era Dante, ti risponderà facilmente che era americano o francese. Ecco: occorre valorizzare il nostro patrimonio, ricordando a tutti che ciò che è italiano, e italiano davvero».