Corriere della Sera, 7 ottobre 2019
Intervista a Enrico Lucherini
E pensare che avrebbe dovuto fare il medico e poi l’attore. Invece Enrico Lucherini (classe 1932) si è inventato tutto un altro mestiere che, in Italia, non esisteva ancora: l’addetto stampa.
«Mio padre era un medico piuttosto importante negli anni Cinquanta e, naturalmente, desiderava che suo figlio seguisse le sue orme. Per accontentarlo, mi iscrissi a Medicina e frequentai la facoltà per un paio d’anni e poi un giorno, passando per Piazza della Crocerossa, dove all’epoca c’era la sede dell’Accademia d’arte drammatica Silvio d’Amico, vedo un gruppo di ragazzi vestiti in maniera strana... una specie di tuta. Chiedo loro che cosa stessero facendo e mi rispondono che dovevano fare un provino per entrare in Accademia. Ho subito deciso che quella era la mia strada. Mi iscrissi per fare il provino anche io».
E lo superò...
«Certo! E mio padre, quando scoprì che non frequentavo più l’università, ma studiavo per fare l’attore, mi cacciò di casa. Mia madre, piangendo, preparò le mie cose e mi disse: vai, figlio mio, vai a fare la tua vita».
Un autentico dramma familiare.
«Altroché! Però io andavo dritto per la mia strada e dopo un paio d’anni, quando cominciavo a fare le mie prime apparizioni in scena, invitai i miei genitori a vedermi al Piccolo Eliseo. Non ricordo quale fosse lo spettacolo, ricordo invece molto bene la reazione di mio padre: voleva chiamare la polizia o i medici d’igiene mentale...».
Addirittura!
«Sì, perché trovava lo spettacolo orribile e ridicolo: considerava me, suo figlio, un matto da rinchiudere».
Il dramma che si aggiunge al dramma...
«A metà anni Cinquanta inizia il mio percorso importante con la Compagnia dei Giovani, con Rossella Falk, Giuseppe Patroni Griffi, Romolo Valli, Giorgio De Lullo... I più grandi attori del momento. Però io avevo piccoli ruoli e guadagnavo pochissimo, dalla famiglia non mi arrivavano soldi, se non un piccolo sussidio, e quando andavo a cena con i miei compagni di teatro, infilavo la mia forchetta nei loro piatti... Fame nera».
E proprio con la Compagnia dei Giovani comincia a fare esperienza da press agent, giusto?
«Io ero l’ultimo arrivato e, evidentemente, non avevo la stoffa per diventare un grande interprete, così i colleghi cominciarono, ogni tanto, ad affidarmi il compito di occuparmi dei rapporti con i giornali. Ma fu quando andammo a svolgere una lunga tournée in Sud America che scattò definitivamente la molla: in America già esistevano gli uffici stampa, capii come funzionava la cosa, cominciai a specializzarmi e i grandi Falk, Valli, De Lullo, rendendosi conto che ero più bravo a fare questo piuttosto che a recitare, mi chiesero definitivamente di diventare il loro addetto stampa».
Suo padre sarà stato contento...
«Assolutamente sì, dato che come attore gli apparivo ridicolo, mentre invece per questo mestiere mi riteneva più adatto. E addirittura mi regalò un appartamento che diventò non solo la mia casa, ma anche il mio ufficio: quello dove vivo e lavoro tuttora. Ma la mia attività non si svolgeva solo in casa, molto di più nei tavolini di via Veneto: era lì che avevo il rapporto con gli attori, i registi, i produttori e soprattutto con i paparazzi... e ancora non era nata la vera Dolce vita».
Perché proprio via Veneto?
«Non so perché sia diventata il centro di tutto il cinema di allora. Forse perché i famosi attori americani alloggiavano tutti da quelle parti, quindi frequentavano i bar, i ristoranti... Era diventata una passerella per tutti. La strada però accoglieva diverse fazioni».
In che senso?
«Da una parte c’era il gruppo di Luchino Visconti, Patroni Griffi, Raffaele La Capria... dall’altra c’erano gli Ennio Flaiano, i De Feo, i Fellini... e poi c’era la terza sponda, con gli intellettuali di sinistra, guidata da Michelangelo Antonioni, Monica Vitti... Per me iniziò la grande avventura».
E le grandi invenzioni: quelle che verranno definite «lucherinate».
«Ne racconto qualcuna?».
Assolutamente sì!
«Bè per esempio, per lanciare il film Sepolta viva, convinco Agostina Belli a far finta di annegare in una piscina: la trovata appariva talmente vera che qualcuno chiamò un’ambulanza. Oppure quando Rossellini stava girando Vanina Vanini con Sandra Milo: era un film in costume e l’attrice indossava una ingombrante parrucca bionda. Per movimentare il set e far interessare la stampa, d’accordo con il regista, la facciamo avvicinare a un candelabro: la parrucca prende fuoco, e subito le viene strappata via dalla testa in fiamme... E poi quando imbastisco una finta tresca amorosa tra Richard Burton e Florinda Bolkan che era ancora una sconosciuta e io dovevo lanciarla. Approfittando del fatto che la Taylor, in quel periodo, era in clinica per altri motivi, convinsi i giornalisti che l’attrice americana aveva tentato il suicidio per gelosia... Ma non solo... per pompare un altro progetto cinematografico, feci buttare Antonella Lualdi, Rosanna Schiaffino e Anna Maria Ferrero nella fontana delle Tartarughe al Ghetto: quando uscirono con i vestiti appiccicati sulla pelle, l’effetto fu più erotico che se fossero state nude».
La «lucherinata» di cui va più fiero?
«In Adulterio all’italiana di Pasquale Festa Campanile, Catherine Spaak indossava un tubino che era composto unicamente di perle: un filo che le girava intorno al corpo. Sul set vedo spuntare un chiodo e mi viene l’idea: dico all’attrice, bellissima, vai vicino a quel chiodo e cerca di impigliarci il filo. Lei ubbidì e le perle cominciarono a scorrere una dietro l’altra finendo a terra e lasciandola praticamente nuda. Venne fuori uno scatto indimenticabile».
L’incontro più importante, però, fu con Sophia Loren.
«Mi chiamò Carlo Ponti per La ciociara, dicendomi: ti raccomando mia moglie, devi costruire intorno a lei qualcosa di speciale. Sophia era giovanissima, bellissima, veniva dai successi negli Stati Uniti e dovevo inventarmi qualcosa di diverso per lei che, qui, era la mamma disperata di una ragazzina “marocchinata”. Il set era a Sora, vicino a Roma, e io facevo in modo che venisse avvicinata dalle paesane locali con i loro bambini: lei li abbracciava, li baciava nelle foto di scena doveva apparire una madre, non una diva».
Un’altra diva era Monica Vitti...
«Non avevo mai lavorato con Antonioni, finché un giorno mi chiama proprio lui per seguirlo in Deserto rosso: voleva portare il film alla Mostra del cinema di Venezia e aveva bisogno di pubblicizzarlo. Vado nella casa dove abitavano, alla Collina Fleming. Mentre eravamo seduti in salotto a parlare del progetto, accade un fatto curioso: Monica si alza, va vicino al pianoforte, lo comincia a toccare e inizia a sussurrare “Michele sta parlando! Michele sta parlando...!”. Antonioni balza in piedi, la raggiunge e anche lui esclama: è vero, parla! E io, come un cretino, chiedo: che sta dicendo?».
La risposta?
«La risposta? Un silenzio assordante. Si limitarono a fissarmi come fossi un deficiente».
Non solo «lucherinate», lei è diventato celebre anche per tante battute feroci.
«È vero, ma non posso dirle tutte...».
Solo qualcuna?
«Definivo Tinto Brass “il fascino discreto della porcheria”, Adriano Celentano “il ragazzo della via Crucis”, Luciano De Crescenzo “l’Arbore delle zoccole”, Aurelio De Laurentiis “momenti di boria”...».
L’attrice con cui non andava d’accordo?
«Catherine Deneuve: sul set di Bella di giorno litigammo furiosamente, era spocchiosa».
Il regista?
«Con Fellini non posso dire di averci litigato: era un uomo gentile, ma molto falso. Diceva continuamente a tutti “ciccino, ciccino...”, tanto che una volta sbottai e gli dissi : “A Federi’ non siamo tutti uguali!”. E so per certo che non andava d’accordo con Visconti, con il quale io ho avuto il grande piacere e onore di lavorare nel mitico Gattopardo. Una volta ero in auto proprio con Luchino, ci fermiamo davanti al celebre bar Canova. Ci viene incontro Fellini e Luchino mi intima di chiudere il finestrino dell’auto. Gli chiedo il perché e lui ribatte: “Ho paura che ci sputi dentro la macchina”».
Un suo rammarico?
«Ho preso in giro tanta gente... forse qualche volta ho esagerato».