Inglese, 46 anni, Bale ha fama di schivo ma è di buon umore anche per le belle critiche ricevute dal film al Toronto Film Festival, a settembre.
Le Mans ‘66 — La grande sfida , in sala dal 14 novembre, racconta in modo avvincente la storia vera dell’ex pilota e progettista americano Carroll Shelby e del pilota- collaudatore britannico Ken Miles, ingaggiati da Henry Ford II per costruire un’auto in grado di battere la Ferrari alla 24 Ore di Le Mans del 1966. Tra i due attori c’è grande alchimia sullo schermo e nella vita ma c’è da scommettere che solo Bale, perfetto nell’incarnare lo spigoloso e schietto padre di famiglia pronto a seguire fino in fondo la propria passione, otterrà la quinta candidatura e forse un secondo Oscar dopo quello del 2011 come miglior attore non protagonista per The Fighter .
Non solo un film per patiti di corse d’auto.
«Mangold è riuscito a fare un film sulle persone, sul sentirsi vivi, sull’amicizia, ambientato nel mondo delle auto. Io stesso non conoscevo la storia di Ken Miles prima del film, non è un eroe celebrato delle gare. Era un inglese delle Midlands che, prima di correre, aveva attraversato l’Europa della Seconda guerra mondiale su un carrarmato nell’esercito. Poi è diventato un pilota: per me il più puro, intelligente, appassionato. Per nulla interessato alla fama».
Aveva una famiglia che amava, eppure era pronto a correre rischi incredibili.
«All’inizio mi chiedevo: chi sono questi tizi pronti a sedersi su vere e proprie bombe piene di gas? Anche perché non c’era all’epoca un servizio di soccorsi efficiente, la gente moriva sul ciglio della strada. Sua moglie Molly non lo ha mai ostacolato, e io l’ammiro per questo. Diceva: non vivremo la nostra vita lasciandoci sconfiggere dalla paura».
Il film esplora anche il rapporto tra Ken miles e suo figlio Peter, che lei ha incontrato prima delle riprese.
«A Peter ho chiesto anche cose che non c’entravano con le corse. A volte dettagli apparentemente insignificanti sono utili a restituire l’autenticità di una persona».
Anche per lei il rapporto con suo padre è stato importante.
«Da lui a ho preso tante cose: l’animo vagabondo, il non voler essere ancorato a un posto fisso, la curiosità per le persone. Siamo fortunati se riusciamo ad avere un rapporto forte con i nostri genitori. Ho visto il film insieme a Peter, è stato più stoico di me: io ho pianto per la commozione».
Ken correva senza sapere se i freni avrebbero tenuto.
Coraggioso o imprudente?
«Per me correva per cercare la verità su se stesso, il rapporto assoluto era tra lui e la macchina.
Questa purezza rendeva nervosi gli altri, spesso si preferiva ingaggiare piloti più giovani e prestanti, che poi lui guardava dallo specchietto retrovisore in pista. D’altra parte l’immagine, il brand, il prodotto sono importanti ancora oggi, in quel mondo. Per fortuna Miles aveva accanto Shelby, che se ne fregava di tutto e credeva in lui».
È soprattutto una storia di amicizia.
«Due outsider contro Golia: la Ford, l’industria, la burocrazia del potere. Non avrebbero potuto farcela senza i soldi della Ford, sono riusciti malgrado la Ford. La capacità di ribellarsi e di fare squadra nonostante le pressioni aziendali ha permesso loro di battere il migliore, che non è Enzo Ferrari».
Una volta Hollywood avrebbe dipinto Enzo Ferrari come il cattivo e l’americana Ford come il buono. Nel film non è così.
«Non abbiamo mai visto la Ferrari come il cattivo, è sempre stata il dio delle corse. Quando Shelby presenta a Miles l’idea che devono battere la Ferrari con una Ford, lui reagisce male, "ma sei idiota? Non succederà mai, la Ferrari è il dio".
La bellezza di questa storia è che due outisder sfidano dio e vincono, almeno per qualche anno, ma ciò non toglie nulla alla Ferrari.
L’apoteosi per Miles è il traguardo che raggiunge, il suo rapporto con Shelby, col figlio. E quel momento in cui guarda in alto, Ferrari guarda in basso e si toglie il cappello».
Il rapporto con Matt Damon?
«Faccio questo mestiere da trent’anni e non sono ancora diventato saggio, Matt è un grande attore con una consapevolezza quasi registica. Un po’ come i nostri personaggi: Shelby è un grande pilota ma è più strategico, Miles vive il momento con tutto se stesso perché è il solo modo in cui sa farlo: come me con la recitazione».
Ha avuto un incidente motociclistico in passato, l’ha influenzata?
«No. I piloti mi hanno insegnato una cosa importante: non guardare dove stai andando, guarda dove vuoi andare. Ottimo consiglio anche nella vita».
Il film racconta la ricerca della perfezione.
«Per me è più divertente cercare la perfezione piuttosto che trovarla».
Quindi quel che conta è l’adrenalina?
«È sempre un bene sfidare se stessi, ti fa sentire grande, vittorioso. Vale anche per gli attori, benché per noi sia più facile rispetto ai piloti. Loro sedevano su bombe volanti, noi arrivamo sul set e ci aspetta la poltrona per il trucco».