La Lettura, 6 ottobre 2019
Biografia di Paolo Bonolis raccontata da lui stesso
«Se non ci vai, ti prendo a calci», promette Silvio Bonolis. Così ha inizio la carriera di Paolo che, accompagnando un amico a un provino, viene scelto come conduttore di un programma per bambini. Un milione a puntata, dodici in totale, «e chi l’aveva mai visti» racconta oggi Bonolis che al tempo voleva rifiutare per proseguire l’università, se non fosse intervenuto il padre, Silvio appunto: «Ti prendo a calci due a due finché non diventano dispari».
Quel padre trasportatore del Burro Galloni, e quella madre che troverà lavoro più tardi come segretaria. Quel padre che manda a quel paese Mike Bongiorno, quella madre che di nascosto si procura il numero di Pippo Baudo («avevo urgenza di parlargli», sosterrà dopo). E un nonno, nonno Pasquale, che racconta storie del terrore in pugliese strettissimo tanto che Paolo non capisce niente – fantasmi, lupi mannari? boh – e per compiacerlo finge di spaventarsi. Tutto questo, e molto altro, rievoca Paolo Bonolis nel libro Perché parlavo da solo (Rizzoli). Aneddoti e riflessioni che svelano un uomo in piena corrispondenza con la televisione da lui inventata, col mondo messo in scena. Un mondo dove non ci sono tabù («a casa mia l’unico tabù era la pagella, non di certo la morte»), dove vita e morte sono contigue, al punto che la morte può essere dileggiata, a tratti ingannata (vedi lo iettatore, e il caro estinto di Avanti un altro!, o il promo di Ciao Darwin 7 – La resurrezione, ambientato in un cimitero, sulla lapide di Bonolis/Laurenti). Per capire dunque l’origine di questo immaginario bisogna andare indietro, ancora più indietro, al bambino di cinque anni che seguiva il padre a scaricare il burro ai Mercati Generali, Roma.
Quartiere d’infanzia?
«Aurelio, via Anastasio II. E via Niccolò V, casa dei nonni dove andavo il pomeriggio perché i miei lavoravano. Giocavo a pallone con gli altri ragazzini, e la palla finiva nei negozi. Quello che si arrabbiava di più era il fruttarolo, diceva che con le pallonate gli spostavamo le banane».
Nel libro fa riferimento alla differenza tra il calciatore che impara a giocare per strada e quello che impara sul campo.
«Federico Buffa, parlando del calciatore olandese Johan Cruijff nota come la sua principale preoccupazione fosse quella di rimanere in piedi. Se hai imparato per strada, sai che non devi cadere, per via dei sassi. E quella cosa lì ti rimane per sempre».
In che modo?
«Ridimensioni tutto, successo, insuccesso. Io, per esempio: mai avuto paura delle cadute metaforiche. Cadi, e nel frattempo vivi».
A proposito di paura: con «Bim Bum Bam» lei ha insegnato a un’intera generazione, sua moglie inclusa, a non avere paura del buio.
«Arriva una lettera di una bambina che dice di non riuscire a dormire al buio. Allora in trasmissione io propongo un esperimento: vai in camera tua, guarda i pupazzi, chiudi la luce. Conta fino a dieci. Riaccendi».
E?
«È ancora tutto lì – dicevo. Al buio non nascono cose».
Anche ai suoi figli ha fatto passare la paura?
«Mi viene in mente Adele. Le raccontavo le storie prima di dormire. Non a tema libero però, era lei a darmi il soggetto».
Un soggetto?
«Il ragazzo con la testa di cavallo che amava fare surf mangiando la pizza con l’ananas».
Non facile.
«La storia era che tutti lo tenevano lontano, poi un giorno arriva una bambina che non si spaventa. Nonostante la testa di cavallo, lei lo vede uguale. Così fanno surf insieme mangiando pizza con ananas».
Come si parla ai bambini?
«Da piccolo odiavo gli adulti che mi parlavano sdolcinato, moine, buffetti. Ogni volta pensavo: che vuole questo? Con Bim Bum Bam ho provato a cambiare linguaggio».
Nel senso?
«Con Giancarlo Muratori, voce del pupazzo Uan, chiediamo di scriverci i testi da soli. Il programma andava molto male, non avevano niente da perdere».
Allora iniziate a scrivervi i testi da soli.
«E io comincio a fare cose che nessun conduttore aveva mai fatto prima, come schiacciare i puffi che ho sempre odiato, troppo buoni».
Risultato?
«Ascolti alle stelle».
Inizia così la televisione di Paolo Bonolis.
«Ho sempre creduto che non bisogna chiedersi cosa vuole vedere la gente, ma cosa ho da raccontare io. Ogni espressione sarà originale e priva di antenati. Teniamo bene a mente che prima di noi, nessuno mai è stato noi».
Intanto a casa mamma e papà?
«Mio padre è stato sempre abbastanza indifferente al mio lavoro, ogni tanto chiedeva: “Quanto t’hanno dato?”».
Vi fermavano per strada?
«E chi ci andava in giro con lui. Quello tornava dal lavoro, e non usciva più di casa».
La mamma invece?
«Più critica. Anche oggi mi chiama per dirmi: “Faceva ridere”, “non faceva ridere”. È una che non si tiene niente».
Ovvero?
«A un certo punto inizia a intrattenere un rapporto telefonico con Pippo Baudo. Recupera il suo numero, e lo chiama: “Baudo, sono la mamma di Paolo Bonolis, lei deve smettere di tingersi i capelli”».
Reazione di Baudo?
«Smette».
Paolo Bonolis padre?
«Ho avuto il primo figlio a 23 anni, l’ultima a 47. Stefano e Martina, i più grandi, hanno sempre vissuto in America, me li sono goduti poco. Il mio contributo alla loro formazione è stato prevalentemente economico».
Gli altri?
«Io e mia moglie siamo molto presenti. Con ciascuno in modo diverso, ogni figlio richiede attenzioni differenti, specie ora che sono grandi».
Nello specifico?
«Con Davide gioco tutte le sere a ping pong. E mica lo lascio vincere. Gli dico: “Un giorno vincerai”. Voglio che cresca con l’idea che le cose bisogna guadagnarsele».
Adele?
«È quella che mi somiglia di più. Per esempio: a me non interessa la moda. Mai messo attenzione all’abbigliamento. Quando la sera usciamo, mia moglie, dopo avermi squadrato, chiede: “Da che ti sei vestito?”. Diciamo che Adele è no logo come me. Odia tutto quello che significa apparire. Altro esempio: non vuole che l’accompagni a scuola. Mi chiede di lasciarla dietro l’angolo, così non mi vede nessuno».
Silvia.
«Silvia è nata con una grave patologia a causa della quale è stata operata più volte. Durante uno di questi interventi ha subito una carenza di ossigeno. Parte delle sue capacità motorie e cerebrali sono state compromesse».
Lei racconta di un momento preciso.
«I medici ci avevano parlato di grandi difficoltà, confermate da varie tac e risonanze magnetiche. Ma quel giorno in terapia intensiva, incrociando lo sguardo di mia figlia, ho capito. “La bambina c’è”, ho detto a mia moglie. Quel modo di guardare non era di un cervello compromesso, un cervello compromesso non guarda così. Se mi spostavo, i suoi occhi mi seguivano».
Gli occhi di sua figlia.
«Presenti, vivi. Celesti».
In che modo si affrontano momenti del genere?
«Silvia ha avuto vicino noi, e tante altre persone, ma il più lo ha fatto da sola. A pochi mesi ha attraversato qualcosa a cui un adulto non sarebbe sopravvissuto».
Di recente l’ha accompagnata alle Special Olympics.
«In linea con la tradizione di famiglia, Silvia ama lo sport. Così siamo andati a Montecatini Terme, lei doveva correre i dieci metri piani».
Risultato?
«Medaglia d’oro. Per amore di verità: sullo sparo di partenza l’altra si è spaventata, e non ha corso. Erano in due».
Ricordo di quelle giornate?
«Silvia ha un problema al braccio sinistro: per una distonia, se viene toccato, le provoca spasmi in tutto il corpo. Non è una cosa che diciamo a tutti, se non agli assistenti. Ebbene, in quei giorni a Montecatini è stata circondata da centinaia di ragazzi disabili, chi con un problema, chi con un altro, e non ce n’è stato uno che l’abbia presa per il braccio sinistro. Loro lo sanno, è un istinto. Sentono quello che noi non siamo capaci di sentire».
La spaventa qualcosa dei suoi figli?
«La velocità. Di recente ho fatto una lezione alla Luiss sulla lentezza, provando a immaginare come sarebbero scritti oggi alcuni capolavori del passato, per esempio L’Infinito di Leopardi».
Oggi diventerebbe?
«I Love Recanati».
La velocità dei ragazzi la fa sentire...
«Parliamoci chiaro, la vecchiaia ha anche molti vantaggi. Mia madre, 87 anni, è stata operata alla cataratta. Quando si è vista allo specchio, ed erano anni che non si vedeva nitidamente, ha detto: “Ridatemela”. Se la voleva far rimettere».
Nei suoi programmi gli anziani sono protagonisti.
«È difficile essere anziani in questo tempo che richiede bellezza, efficienza, produttività. Mi dispiace vedere la frustrazione negli occhi dei nonnetti. Allora ci scherzo, nelle trasmissioni li coinvolgo. Essere protagonisti li fa sentire vivi, credo».
Paura della morte?
«Sia io sia Laurenti siamo morti un paio di volte a testa. Ogni tanto compare la notizia su internet».
È per esorcizzare la morte che c’è quell’esibizione di corpi femminili in «Ciao Darwin»?
«No, è per esaltare la vita».
Nel libro lei parla di Dio: esiste?
«Al catechismo mi hanno insegnato che Dio è onnisciente. Bene. Se sa già tutto in partenza, significa che sa perfettamente quale sarà il percorso di ognuno di noi, giusto? Ne consegue che Dio sappia già cosa fare della nostra anima. Mi chiedo: noi allora che ci stiamo a fare?».
Ateo?
«Non ho problemi con chi crede, se la fede gli rende la vita migliore. A livello personale non cerco risposte, non voglio sapere cosa c’è dopo, penso: se lo so e non mi piace? Preferisco l’incoscienza alla presunzione».
Eppure succedono cose inspiegabili.
«Quando stava per nascere Silvia, mio padre stava morendo. Si è raccomandato: “Ricordati di regalare alla bambina un mazzo di rose bianche”; me l’ha ripetuto tante volte. Poi è morto, Silvia è nata, e io – con i problemi legati alla bambina – mi sono dimenticato».
E?
«Arriva maggio, e sul terrazzo di casa nostra fioriscono rose bianche al posto di quelle rosse. Il giardiniere mi ha detto: “Impossibile”. Erano bulbi di rose rosse, difatti negli anni prima e in quelli dopo sono sempre cresciute rose rosse. Solo quell’anno bianche».
Come se lo spiega?
«Devo spiegarmelo?».