La Lettura, 6 ottobre 2019
Un Nobel per Ian McEwan, presto
Siamo nel 1982 e Margaret Thatcher muove guerra all’Argentina per le Falkland (ma la perde!). Siamo nel 1982 e i Beatles si sono riuniti incidendo un nuovo album, Love and Lemons, con un’orchestra sinfonica da 80 elementi. Siamo nel 1982 e Alan Turing (il grande e sfortunato genio del Novecento) non è morto, veste in stile bohémien-chic e vive la sua sessualità senza più persecuzioni: il tempo gli ha affilato «il viso, segnando di più gli zigomi e conferendogli un’espressione di acuta ferocia». Siamo nel 1982 e Charlie, sfaccendato trentaduenne con una passione per l’elettronica, ha dilapidato l’eredità materna nell’acquisto di Adam. Costui è un robot in edizione limitatissima, un portento di intelligenza artificiale, una Creatura frankensteiniana che ha letto tutto Shakespeare e sfoggia «un’avvenenza da fuorilegge». Sembra «un portuale del Bosforo», dice Miranda, la fresca fidanzata di Charlie. Adam vive in casa con loro come una specie di maggiordomo, cuoco, segretario e quasi un po’ figlio. Ma le cose si complicano come dimostrano queste due battute di dialogo. Miranda: «Se fossi andata a letto con un vibratore, staresti così male lo stesso?». Charlie: «Adam non è un vibratore». E si complicano ancora perché qualcuno vuole uccidere Miranda (una bellissima storia nella storia). Ma si complicano soprattutto perché Adam, che scrive haiku d’amore e arricchisce la famiglia giocando infallibilmente online in borsa, precipita nella depressione di fronte al dolore, al male di vivere (cose per cui non era programmato). Nemmeno Turing, consultato, può fare nulla. La formula dell’Eneide (Sunt lacrimæ rerum) sbaraglia anche il più sofisticato algoritmo. Con Macchine come noi Ian McEwan ha scritto un altro capolavoro tra Black Mirror e Harold Pinter, un romanzo (sovrumano) di intelligenza sentimentale. Accademici svedesi, che tanto avete bisogno di riscattarvi, cosa aspettate a premiarlo? Non facciamo un altro caso Philip Roth.