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 2019  ottobre 06 Domenica calendario

Andreotti crioconservato. Un romanzo

Davide Orecchio è uno degli scrittori italiani da cui è lecito aspettarsi di più – posto che la cosa abbia un senso, perché in arte la bellezza è lavoro e ancora lavoro ma poi arriva come un dono, non si merita né si pretende. Come che sia, è probabile che anche lui avverta qualcosa del genere, dopo l’esordio non precocissimo, lungamente meditato ma da subito sfolgorante di Città distrutte (2012), la conferma, pur a mio avviso con qualche stonatura «in eccesso» di Stati di grazia (2014), la consacrazione critica quasi unanime riservata a Mio padre la rivoluzione (2017), dove la sovrabbondanza del talento faceva aggio su un controllo non sempre calibrato al millesimo. In questo suo Il regno dei fossili, invece, le proporzioni sembrano essersi invertite, forse a causa della sua stessa e di per sé benedetta ansia di far grande, incendiare la lingua, misurarsi con l’estremo. Fossi un critico gastronomico sarei costretto a dire, a malincuore, che il pranzo che il libro ci offre è ottimo negli antipasti e nel dessert, troppo greve e inutilmente speziato nelle portate principali.
Il romanzo intreccia due vicende, entrambe di orfani. La prima è quella di Albina, che nel 1976, investita da un’auto nel basso Lazio, deve subire l’asportazione della milza che la costringe a camminare a lungo curva – sembri Andreotti, le dice il nonno per rincuorarla. Di Albina seguiremo poi la prima età adulta, la relazione con Simone, altro orfano, come lei dedito a studi storici, ossessionato da Andreotti su cui non riesce a scrivere la tesi si laurea (siamo nel 1996), e i rapporti mai chiariti con una figura più adulta, docente universitario di Storia, forse padre incestuoso, forse amante segreto, di sicuro bieco stalker che la chiama «la puttana» ma poi la colma, o sogna di colmarla, di tenerezze, la pedina a Berlino dove si è recata a fare ricerche, non indietreggia davanti a un atto violento.
La seconda vicenda è quella di Giulio Andreotti, orfano di padre, ricostruita attraverso i suoi diari e i libri di Massimo Franco e di Giorgio Galli, in due momenti chiave della sua carriera politica, gli anni del piano Marshall, che lo vedono strettissimo collaboratore di De Gasperi, e i giorni del sequestro Moro. Tra Andreotti ed Albina, Simone e il professore non c’è nulla in comune, se non che l’uno governa gli altri, e che Albina è stata ferita nel collegio elettorale dove Andreotti mieteva le mitiche centinaia di migliaia di preferenze. E se non l’orfanezza, ovvero il mistero della Vita e della Morte (un po’ troppo, dunque un po’ troppo poco). Né aiuta a fondere le due parti, narrate a capitoli alterni, l’invenzione fantastorica che Andreotti sia depositario, oltre che dei segreti d’Italia, anche del fatto che, oltre al piano Marshall, gli americani avrebbero confidato a De Gasperi un piano ben più ambizioso, il Piano Clarke (da Arthur C. Clarke, quello di 2001 Odissea nello spazio), progetto di crioconservazione per garantirsi l’eternità, di cui tenere all’oscuro socialisti e comunisti, e che ingenera dubbi nei cattolicissimi interlocutori italiani. E Dio? Come faremo a vederlo senza morire? E infatti De Gasperi rinuncerà, e Moro lo stesso, anche se vi verrà sottoposto contro la sua volontà da Andreotti, che ne fa trafugare il corpo dalla Renault rossa per sottoporlo al programma.

Orecchio dà fuoco a tutte le polveri: metafore, anafore, zeugmi, allitterazioni, accumulazioni caotiche, un uso al limite della grammaticalità di pronomi e consecutio temporum, uno straordinario estro visivo braccato dall’imperativo di dover essere a tutti i costi visionario, come se da subito, dalla lingua in sé, fosse possibile per salto quantico contemplare direttamente il mistero cui queste esistenze, nella loro totale accidentalità, Andreotti compreso, alludono. Non ci si riesce. Se non nella parte finale, un futuro imprecisato in cui il progetto di crioconservazione è superato e Albina, Simone, il professore e Andreotti si ritrovano incastonati nell’involucro digitale che conserva coscienza e ricordi (ma permettendo a chi vuole di espungere i più odiosi), e li fa comunicare tra loro. Le pagine in cui Andreotti è costretto ad ascoltare per l’eternità i giudizi di Moro su di lui, tratti dalle sue lettere e dal suo memoriale, sono tra le più belle mai scritte da Orecchio, e basterebbero a giustificare l’esistenza del libro (ma ce ne sono altre). Lasciando ai lettori il rimpianto d’un tempo meno ossessionato dalla compulsione a «fare il romanzo», e in cui quelle pagine avrebbero potuto risplendere in un poemetto, un mottetto, un oratorio musicato da Bach, da Schönberg o da Ligeti.