La Lettura, 6 ottobre 2019
Hofmannsthal, gli appunti di un capolavoro
Sarà anche un caso, ma è impossibile non prendere atto di quanti tra i più importanti romanzi del Novecento siano rimasti incompiuti: dall’Uomo senza qualità alla Cognizione del dolore, dal Castello di Kafka a Petrolio di Pasolini. Conseguenza di innumerevoli circostanze pratiche, il non finito ha involontariamente generato la più credibile delle immagini estetiche di un mondo devastato e sradicato. Finendo anche per gettare un pesante sospetto sulla reale compiutezza di ogni opera, anche di quella illusoriamente perfezionata a regola d’arte. Perché ogni racconto, se ne consideriamo la natura profonda, è un racconto mutilo e reticente, un sacrificio di possibilità inespresse.
In questa stupefacente costellazione di capolavori rimasti più o meno lontani dall’ultima pagina, Andrea o I ricongiunti di Hugo von Hofmannsthal occupa un posto del tutto particolare, non solo perché ad ogni rilettura l’incanto della prima volta si ripresenta intatto, come le pietre di un gioiello che tornano a brillare dopo essere rimaste a lungo chiuse in un cassetto. Si direbbe che nessun libro sfrutti come l’Andrea i vantaggi dell’incompiutezza, e se le poche decine di pagine scritte dal grande poeta austriaco fanno certamente rimpiangere tutto ciò che manca, il folto dossier di appunti, frammenti, progetti di sviluppo contiene pagine così belle e illuminanti, così piene di un’arcana sapienza, che ci si domanda se esistesse un mezzo più adeguato del frammento a veicolare intuizioni poetiche così preziose sulla natura umana e sul grande gioco della vita. E dire che al grande poeta viennese non era mancato certo il tempo, se la prima scintilla dell’opera balena nel 1907, quando sente parlare di un libro di uno psichiatra americano dedicato a un caso di schizofrenia, o sdoppiamento della personalità, e ancora ci lavora nel 1927. In mezzo c’è la Prima guerra mondiale e la fine irrimediabile di quel mondo asburgico di cui Hofmannsthal era stato il più squisito interprete e cantore, ma certe ispirazioni, certe intuizioni della vita sembrano insistere sulla coscienza e guidare l’ispirazione al riparo da ogni catastrofe storica e individuale.
Forse perché amava il teatro più di ogni altra forma d’arte, Hofmannsthal aveva un talento incline all’innovazione, ma anche una grande coscienza di tutti i trucchi e le risorse del migliore repertorio letterario. E così, nell’avventura veneziana del giovane Andreas von Ferschengelder, che inizia nell’autunno del 1778, lo scrittore fuse due collaudatissimi schemi narrativi dell’età romantica: quello del viaggio in Italia come momento-cardine e ingresso nella vita reale, e quello del sosia o del doppio, rivisto, come si è accennato, alla luce delle scoperte della psichiatria moderna, tenendosi sempre in bilico tra prodigio e malattia.
Per una singolare coincidenza, il romanzo di Hofmannsthal torna questo mese in libreria in due versioni italiane. Adelphi ristampa la classica e bellissima traduzione di Gabriella Bemporad, che risale al 1948. La vera novità però è rappresentata dall’edizione curata da Andrea Landolfi, che cambia il vecchio e consolidato titolo, Andrea o I ricongiunti, in Andreas o I riuniti, ed è a mio parere l’unico appunto che si può muovere a un lavoro lodevole sotto ogni aspetto: non si capisce mai l’utilità di queste sfumature che perturbano la memoria di un libro non portando in cambio nessun elemento reale di conoscenza. La questione è tutt’altro che secondaria: comunque si voglia tradurre il termine originale Vereinigten, la vera posta in gioco del romanzo consiste in un itinerario spirituale che dovrebbe permettere ad Andreas di trovare la strada capace di ricongiungerlo, o riunirlo che dir si voglia, a sé stesso, armonizzando in un autentico destino le parti sconnesse e discordi della sua personalità. Fondamentale sarebbe stato l’incontro di Andreas con il nobile Sacramozo, cavaliere di Malta e iniziato ai più profondi misteri del platonismo e dell’alchimia, che appare solo di sfuggita nella parte terminata e che domina nella selva degli appunti preparatori, finalmente tradotti quasi integralmente da Landolfi, mentre la scelta di Gabriella Bemporad era più limitata, lasciando nei lettori ammaliati il desiderio di saperne di più. Perché, se i pochi capitoli effettivamente scritti (tra il 1912 e il 1913) ci autorizzano già a parlare di capolavoro, questi scartafacci non sono da meno. Ci introducono in una Venezia che sembra dipinta con il pennello del Guardi, affollata di personaggi che potrebbero uscire da una pagina delle memorie di Casanova o da una commedia di Goldoni.
Ed è sempre da questa massa disordinata di appunti, da questo straordinario deposito dell’immaginazione che si accresce lungo gli anni, che emerge l’altro personaggio capitale nel processo di iniziazione di Andreas: un doppio femminile rappresentato dalla coppia Maria/Mariquita, entità magica e psicotica al tempo stesso, che nei progetti dell’autore si sarebbe collocata al centro della storia scompaginandone le attese e le certezze, precipitando il protagonista in una girandola di illuminazioni e smarrimenti. Ma mi sembra che nessun personaggio raggiunga la statura artistica di Andreas.
Hofmannsthal nutrì l’ambizione di gareggiare con l’apprendista per eccellenza della nostra tradizione, ovvero il Wilhelm Meister di Goethe. Ne venne fuori un indimenticabile figura di giovane uomo (ha 22 anni quando arriva a Venezia) alla ricerca della sua seconda nascita e del vero sé, lungo un processo di iniziazione che a molti lettori non digiuni di psicologia del profondo potrà ricordare sorprendentemente l’«individuazione» di Carl Gustav Jung. Non sarà un caso se a curare la prima edizione in rivista dell’inedito di Hofmannsthal, dopo la sua morte, fu Heinrich Zimmer, amico di Jung e genero dello scrittore, nonché geniale studioso di mitologia indiana e autore di saggi indimenticabili dedicati al tema della «vittoria dell’anima sul male».
Per tale strada l’Andrea può essere collocato sullo sfondo di una delle più importanti e innovative correnti di cultura del Novecento. Ma Hofmannsthal era dotato di un senso artistico troppo fine per sottoporre il puro fascino romanzesco della sua invenzione al peso di dottrine che avrebbero finito per soffocarlo. E forse, se in vent’anni procedette così lentamente verso la conclusione, la ragione va cercata proprio nelle difficoltà incontrate nell’armonizzare l’astratto e il concreto, come vediamo accadere alla perfezione nei capitoli effettivamente scritti. Grandioso fallimento, dunque? Ma che cosa, a ragionare con rigore, non è un fallimento, nella letteratura? Solo per Andreas, per la sua infinita disponibilità ad apprendere i segreti della vita, per la totale ignoranza che è la condizione stessa del vero apprendimento, per la sua vigile e trepidante curiosità, valeva la pena il tentativo. Rampollo della piccola nobiltà viennese, appena uscito da un mondo gretto e convenzionale, Andreas non possiede nessuna virtù che si imponga particolarmente all’attenzione del lettore. Procede di errore in errore perché è così che gli esseri umani possono discriminare il bene e il male della vita. La manifestazione suprema del suo coraggio è la capacità di ascolto che lo rende, secondo la splendida definizione dello stesso Hofmannsthal, «il luogo geometrico di destini estranei». Solo gli altri sono capaci di ricongiungerci a noi stessi.