Avvenire, 6 ottobre 2019
Il supertrafficante libico in visita a Roma
Se la visita delle delegazione libica al Cara di Mineo e in altri centri per immigrati in Sicilia non era mai stata resa pubblica prima delle rivelazioni di Avvenire, emerge ora una foto del 15 maggio 2011, scattata a Roma, nel quartier generale della Guardia costiera italiana quattro giorni dopo il meeting in Sicilia. Accanto agli ufficiali italiani c’è Bija con gli altri emissari nordafricani tra cui, alla destra del trafficante di uomini, una figura su cui si stanno concentrando i legali di diversi migranti passati dai campi libici, testimoni chiave in alcune inchieste avviate nell’isola.
Grazie a Luca Raineri, ricercatore di Relazioni Internazionali e Security Studies presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, scopriamo che Bija era a Roma per una serie di «incontri di formazione». Nella nota che, sul sito della Guardia costiera, accompagnava la notizia si legge: «Nell’ambito del progetto ’Sea Demm – Sea and Desert Migration Management for Libyan authorities to rescue migrants’, coordinato dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), il Comando Generale delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera ha ricevuto in visita una delegazione composta da rappresentanti di diverse amministrazioni libiche e di funzionari dello stesso Oim».
Bija, in abito scuro, pettinatura impomatata e posa atletica, è tra i più eleganti. L’appuntamento «si è dimostrato un’importante opportunità per trattare argomenti cruciali quali la ricerca e il salvataggio della vita umana in mare, il border control (il controllo dei confini, ndr), l’attuale divisione delle aree Sar (ricerca e soccorso, ndr) nel Mediterraneo Centrale e il progetto di cooperazione tra Italia e Libia, che si propone, attraverso il ricorso a finanziamenti europei, di istituire un efficiente
Maritime Coordination Center in quest’ultimo Stato».
Era l’inizio della cooperazione che ha portato a delegare alla cosiddetta Guardia costiera libica la cattura dei migranti in mare. Senza che mai, nonostante le promesse di tutti i governi italiani che si sono susseguiti da allora, vi sia stato un miglioramento dei diritti umani di base, tanto da far chiedere alle Nazioni Unite e anche all’Unione Europea, la chiusura di tutti i campi di prigionia, a cominciare da quello sotto il controllo di Bija e dei suoi complici. Nelle ricostruzioni ufficiali sul resto del viaggio di Bija, peraltro, rimangono altre grandi zone d’ombra. Le notizie pubblicate dal nostro giornale, infatti, hanno provocato varie reazioni. Dai servizi segreti italiani all’Unione europea. La portavoce del Servizio Europeo di Azione Esterna, Maja Kocijancic, ha ribadito che «nessuno dei guardiacoste addestrati da Operazione Sophia è sulla lista delle sanzioni Onu», mentre l’Unione Europea ha chiesto alla Guardia costiera libica di «affrontare il caso di Abdalrahman al-Milad», detto Bija, che «a quanto ci risulta è stato sospeso dal servizio». In altre paro- le, Bija non può essere considerato un referente delle guardie costiere dell’Ue. Ma in realtà, come documentato più volte da Avvenire e altre testate internazionali, oltre che da indagini delle Nazioni Unite, le motovedette del boss di Zawyah sono ancora attive e rispondono alle chiamate della centrale di Tripoli, a sua volta allertata dalle Guardie costiere di Paesi come Italia e Malta. L’Ue, dunque, non si assume responsabilità per quanto i singoli Stati fanno, ritenendo di avere dato indicazioni precise per
stare alla larga da personaggi con pochi scrupoli.
Contattati dall’agenzia AdnKronos, i vertici dell’intelligence italiana hanno formulato una «smentita categorica » circa la presenza di funzionari del servizio segreto a Mineo. Con un distinguo. Nella precisazione viene indicato che «nessun funzionario dell’Aise ha mai partecipato a quella riunione». L’Aise è l’agenzia per la sicurezza esterna. Curiosamente, non viene indicata l’assenza anche di uomini dell’Aisi, l’Agenzia informazioni e sicurezza interna. Tuttavia, come confermano diverse fonti, non c’è dubbio che l’intero viaggio sia stato seguito da funzionari del ministero dell’Interno, sia a tutela della delegazione estera, che per monitorare gli spostamenti e le mosse degli ’ospiti libici’. Rileggendo le denunce delle Nazioni Unite sui crimini contro i diritti umani commessi dalla Guardia costiera di Zawyah, divulgati precedentemente all’arrivo in Italia della discussa delegazione libica, si ha la conferma che qualcuno in quei mesi ha chiuso un occhio. Quasi ogni trimestre, nei due anni precedenti, le Nazioni Unite hanno denunciato il dramma dei migranti. Il 16 aprile 2016, in uno dei dossier del Consiglio di sicurezza, viene descritta la situazione del centro di detenzione ancora oggi sotto il controllo di Bija e del suo clan. «L’1 aprile a Zawiyah, quattro detenuti dalla struttura di detenzione di al-Nasr, che è gestito dal Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale (presso il governo di Tripoli, ndr), sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco e 20 altri sono rimasti feriti a seguito di un apparente tentativo di fuga. Anche una guardia è stata ferita. Il caso ha mostrato la seria preoccupazione in corso riguardo alla terribile situazione di migranti, richiedenti asilo e rifugiati in Libia, comprese le condizioni relative a il loro trattamento e la detenzione prolungata». Il 5 aprile 2017, un mese prima della visita in Italia, la più importante agenzia fotografica del mondo pubblicava un servizio proprio su Bija, ritratto a cavallo, a corredo di una serie di inchieste giornalistiche nelle quali è indicato come perno del network della traffico di esseri umani. Davanti a questi documenti è anche solo difficile ipotizzare che un esponente proveniente da quell’area, ripetutamente indicato per nome e immagini dalla stampa italiana e internazionale, potesse ottenere un salvacondotto per entrare in Italia con la garanzia di poter rientrare senza conseguenze.