il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2019
Intervista a Riccardo Cocciante
Non era già tutto previsto per Riccardo Cocciante perché “non ho mai chiesto di diventare un cantante e di salire su un palco: non ero in grado, troppo timido, chiuso, anche complessato; sono stati gli altri a coinvolgermi e dopo avermi ascoltato e visto; sono gli altri ad avermi portato ai provini, e mi hanno salvato la vita. (ci pensa, abbassa una voce già non squillante) Sì, la musica mi ha salvato”.
Cocciante è a Roma per il ritorno di Notre Dame de Paris (dal 17 ottobre a Milano, poi in giro per l’Italia fino ad aprile), l’opera moderna dei record, da 19 anni sulla scena, decine di migliaia di spettatori e centinaia di repliche (“e all’inizio non ci credevano, né in Francia, tantomeno in Italia”). E quando ne parla non cambia tono in maniera evidente, con lui orgoglio e disperazione vanno quasi di pari passo, sono parti di un percorso ineluttabile, divino, di chi è al centro di un disegno più grande di sé; quindi le emozioni è necessario scovarle altrove, negli ultrasuoni della voce, negli occhi e nelle mani, nelle reazioni della moglie, Catherine Boutet, sempre accanto a lui, o nell’unico sorriso strappato dopo la domanda “cosa le fa ridere?” “Quasi niente”.
Per decifrare la sua storia Spotify aiuta nell’offrire un quadro plastico inatteso: il numero di successi è superiore alla memoria collettiva: “Quando preparo la scaletta dei concerti non so mai cosa togliere: dovrei suonare solo hit”.
È un problema…
Un po’, perché le hit salgono, salgono e mi martirizzano la voce; alla fine dei concerti sono stremato e non solo per lo sforzo fisico, ma per la concentrazione, per la mia attitudine a entrare dentro un globo emozionale differente.
Cioè?
Quando si sta su un palcoscenico si finisce in uno stato mentale particolare che ti porta a superare dei limiti che neanche conoscevi.
Renato Zero sostiene: “Non mi fido di chi non trema prima di salire su un palco”.
È vero; l’ansia è un elemento essenziale e il palcoscenico è una nuvola, quasi un aldilà che richiede uno stato emotivo difficile da gestire.
E il ritorno?
È lungo, per me ci vogliono due o tre ore; è impossibile finire un concerto e andare a dormire e con il passare del tempo è sempre peggio.
Il primo palco lo ha condiviso a Roma con Venditti e De Gregori.
Al Teatro dei Satiri; Antonello usciva dal locale per controllare quanta gente c’era, poi tornava da noi affranto: “Ma perché non viene nessuno?”. Non funzionavamo. Eppure Antonello aveva già Roma Capoccia e Francesco una hit come Alice…
E lei?
Solo Poesia, ma non era un grande successo, solo dopo sarei uscito con Bella senz’anima e Quando finisce un amore; nonostante questo quel teatro è stato importante per la mia autostima, con il pubblico che scopriva un ufo. Quell’ufo ero io.
Loro due erano musicisti politicamente attivi.
Perfettamente inseriti nel sistema sociale, cantavano spesso ai Festival de
l’Unità; io mi rifiutavo, per questo è stato più difficile, poi tutto è cambiato con Bella senz’anima, un pezzo che mi ha inserito nello stesso filone di Venditti e De Gregori, nonostante non fosse un brano esplicitamente politico.
E invece?
Si è tramutato in un inno di protesta, specialmente in Spagna e Sudamerica ha provocato un movimento di rivolta, di consapevolezza e coraggio contro le dittature del tempo, tanto che in Argentina i colonnelli la proibirono (ci pensa) eppure in origine non aveva alcuna velleità del genere.
Non se lo aspettava.
E neanche la discografia: in Spagna la cantavano nei cortei di protesta, e ancora oggi in Cile mi invitano al Festival di Viña del Mar.
Idolo in Sudamerica.
Lì ho rotto molti tabù: fino ad allora la musica era molto tradizionale, il cantante si presentava vestito bene, con il classico completo; io in jeans e con i capelli lunghi, e poi a quel tempo ci si esibiva per piacere agli altri, mentre già allora salivo su un palco per esprimermi.
“Bella senz’anima” cantata in spagnolo le cambia le sensazioni?
No, perché l’ho interpretata in diverse lingue e sono abituato; ho brani in francese, spagnolo e italiano, più qualcosa in inglese.
Le manca il cinese.
Ancora no, vediamo (ride) ma il cinese è veramente complicato; ma la mia cultura è atipica: sono realmente metà francese e metà italiano, e con gli anni mi sono reso conto che non tutti i brani reggono entrambe le lingue.
Ha discografie differenti?
Alcuni funzionano, altri no e ci sono dei successi in Francia sconosciuti in Italia e viceversa: Bella senz’anima non esiste in francese così voi non conoscete Le coup de soleil (successo del 1980); oppure Il mio rifugio, hit in Francia, è desaparecida qui; il contrario con Cervo a primavera.
De Gregori non riscriverebbe “La Storia”.
Ha dichiarato una cosa simile pure per La donna cannone, eppure è un capolavoro.
A lei succede?
Alcuni pezzi posso ritenerli meno belli, meno importanti, ma rientrano nel mio percorso, quindi non li rifiuto: sono come dei figli (ci pensa) Anche Venditti la pensa come Francesco, e recentemente l’ho sentito cantare una Roma Capoccia totalmente trasformata.
Bob Dylan rende i suoi pezzi irriconoscibili.
Io rispetto come l’ho creata e ogni volta rivivo quel momento, non cerco di cambiarla perché sono oggetti importanti della mia vita.
Sempre Dylan detesta il pubblico che canta.
No! Amo collaborare con loro, parlarci, averli attivi e partecipi; è un dialogo, per questo prima ho detto “mi sono salvato”.
Perché?
Davvero ero chiuso, introverso, silenzioso, incapace a esprimermi (la moglie: “Aveva una forma di autismo”); non, sapevo interagire: la canzone è diventata il mio codice.
Complessato.
Il fisico ha giocato un ruolo importante, soprattutto l’altezza: ero in un guscio.
Insomma, cosa la fa sorridere?
Rido poco, neanche con i film comici; solo ogni tanto scoppio e non so perché.
Ride così poco?
(Risponde la moglie) Giusto qualche accenno.
Che film?
L’inizio di Hollywood party è portentoso, amo il non sense, il comico diretto mi convince poco.
Parole sue: “La popolarità può alterare l’autenticità di una composizione”.
In realtà può alterare in generale l’uomo: essere popolare ha dei vantaggi, ma non assoluti; piano piano, senza accorgersene, la persona inizia a vivere per gli altri e non per se stessa; organizza la vita in funzione della fama e si compiace.
A piccole dosi.
È sbagliato nascondersi quando si esce e mutare le proprie abitudini; è giusta la riconoscenza verso il pubblico, ma ogni tanto è necessario escludersi e vivere in maniera sana e normale, o ne risente il processo compositivo.
Crea per sé.
Esatto, per il mio piacere, e in questo forse sono egoista, ma per riuscirci è esseziale ritirarmi in un posto dove non mi conoscono.
Vive in Irlanda.
Da diciannove anni e spesso evito il centro di Dublino: lì trovo italiani e francesi.
Guida?
Mi piace molto.
Fa la spesa?
Frequentemente.
Com’è arrivato a Dublino?
Per gli arrangiamenti di Notre Dame de Paris: dopo aver ascoltato Riverdance ho capito che avevo bisogno di quei suoni, quasi medioevali.
La sua opera è arrivata in Italia grazie a David Zard.
Una persona atipica, con lui ci siamo scontrati, ma l’importante è stato il risultato finale; siamo stati noi due (indica la moglie) a invitarlo in Francia per mostrargli lo spettacolo, e all’inizio non ne era completamente convinto.
Succede.
Con Notre Dame è stato sempre così, anche in Francia trovammo degli ostacoli perché poco tempo prima Les Misérables si era tramutato in un grosso flop.
In quale lingue sogna?
Entrambe.
In quale lingue litiga?
(Inizia la moglie) Dipende dal motivo (prosegue Cocciante) e dipende da chi ho di fronte; tra i cantanti sono il più francese degli italiani e il più italiano dei francesi e quando sono arrivato in Italia, a soli 11 anni, non conoscevo una parola in italiano, e a Roma mi hanno iscritto in una scuola francese, lo Chateaubriand, dove dominava lo “chateaubrianese”, un miscuglio di francese e italiano con un pizzico di romano.
Torniamo agli anni Settanta a Roma.
Periodo veramente complicato: se non cantavi come volevano loro, alcuni soggetti diventavano aggressivi; un giorno entro al bar di piazza Euclide (quartiere Parioli), e un tizio mi aggredisce: “Tu canti per la destra!”. “Io? Non mi sembra”. Per fortuna poi arriva un poliziotto e lo allontana; pure durante i concerti non era semplice, venivi accusato di parteggiare per l’una o l’altra parte politica.
Sempre?
Ricordo una tournée con Rino Gaetano: trovavamo gli estremisti a insultarci.
Il malessere di Rino Gaetano lo aveva intuito?
La sua morte non la si poteva totalmente prevedere, ma il suo stato d’animo era evidente: era un ragazzo portato a vivere per estremi
Up e down…
Continui e non c’era mai all’inizio del concerto: lo andavamo a cercare per tutti i bar della zona.
La versione di “A mano a mano” cantata da Rino Gaetano, le piace?
Molto interessante e la nuova generazione non sa neanche che è mia.
C’è una sua immagine al concerto di Vasco a San Siro: tutti ballano, lei no.
Non partecipo molto, non amo gli atteggiamenti troppo manifesti, ed è strano: il pubblico li dedica a me, e io non riesco a ricambiare.
Quindi…
Il punto è sempre lo stesso: sono diventato cantante in quanto era il mio destino, questo era previsto; eppure non ho mai studiato musica, non ho mai scritto niente.
Si è definito “non bravissimo a suonare”.
Appunto, non ho mai studiato il pianoforte, lo suono con dei codici personali, l’armonia me la sono inventata, e il canto è da impressionista.
Impressionista?
Non sono un vocalist che rispecchia il concetto assoluto di bellezza, con me conta cosa c’è dietro; mi potrei paragonare a un pittore naïf, e non amo la perfezione, preferisco l’imperfezione che diventa espressione.
Allora le stava stretto un talent come “The Voice”.
Lì ero dentro una macchina e certe costrizioni non mi sono mai piaciute, poi non ero a mio agio nell’escludere dei ragazzi che esprimevano un certo valore, così ho lasciato ed evitato la seconda edizione (silenzio) In assoluto replico difficilmente, come Sanremo.
Come viveva e vive le critiche?
Sono sempre stato un po’ snobbato, preferivano cantanti più “in”, più ancorati al momento sociale e politico; non sono mai stato inserito sotto la categoria “artista di concetto”, e sul momento ne soffrivo, poi con il tempo ho capito che non venir catalogato è il mio grande pregio.
Successe a Battisti.
Lui si beccò del fascista e come accusa era più pesante di quelle rivolte a me.
Ascolta la sua musica?
Sono allergico sia a vedermi che a sentirmi (la moglie: “Mai e poi mai, e c’è un aspetto incredibile: lui sa tutto di quello che accade del mondo, conosce le novità musicali più strane, e resta sempre in casa per lavorare nel suo studio, anzi la sua grotta”).
Cosa si augura?
Gli artisti devono lottare per non cadere nella seduzione della società, non dobbiamo essere per forza cordiali e piacevoli. L’artista non lo è sempre. Ed è fondamentale restare un po’ bambini, come diceva Il Piccolo principe.
(“Toutes les grandes personnes ont d’abord été des enfants, mais peu d’entre elles s’en souviennent”; “Tutti i grandi sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano”).