il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2019
Nel mondo c’è un suicidio ogni 40 secondi
“Lei era Marta e ha scelto di morire impiccandosi”. Inizia così, per me, la storia di Marta. Scrollando in velocità l’home page del sito del fattoquotidiano.it. La foto messa a corredo – una ragazza mora, sorridente – aveva fatto il resto. Clic. “Lei era Marta, mia figlia. Il 15 aprile 2019 all’età di 40 anni ha scelto di morire impiccandosi. L’ha fatto in casa sua a Roma. Ci ha lasciato uno scritto sul tavolo della cucina, due mozziconi di sigaretta nel posacenere, il telefono in modalità aerea, una bottiglia di vodka e troppo dolore”. Quella che stavo leggendo era la lettera che la madre di Marta, C., aveva inviato alla sezione “Fatto da Voi” del nostro sito. “Il primo grido di dolore, pur contenuto e dignitoso – mi confesserà lei, poi, durante il nostro primo scambio – al di fuori dello spazio sacro della mia famiglia”.
“Marta non riusciva più ad affrontare la vita. ‘Troppo difficile per me’, come ha testualmente lasciato scritto. Aveva una famiglia che la amava, un lavoro, un ragazzo, tantissimi libri, pensieri profondi e nascosti. Da quel momento io non sono più quella che ero, un tornado mi ha scaraventato in un’altra dimensione sconosciuta e crudele. Ma l’intento di questa mia lettera non sono io né la mia famiglia: i survivor come veniamo definiti dalla poca letteratura in tema. Vi scrivo per denunciare il silenzio degli organi di stampa riguardo alle morti per suicidio, la seconda causa di morte tra gli adolescenti. Spesso per notizie così si spendono quattro parole in un trafiletto che si conclude quasi sempre con ‘soffriva di depressione’. Io non ho la risposta alla grande domanda: perché l’ha fatto? Gli anni che mi resteranno da vivere non saranno sufficienti. Vi ringrazio della vostra attenzione”.
Pensiamo che non ci riguardi, e non vogliamo sentirne parlare. Pensiamo a casi isolati di persone sull’orlo della follia, o caduti nel vortice del disturbo mentale. Ma non discuterne, non leggerne, non è un modo per “proteggersi”, per evitare “contagi”. In Italia ogni anno 3.935 persone si uccidono, 800mila nel mondo (e si calcola che, per ogni tentativo di suicidio andato a fine, ce ne siano almeno 10 volte tanti che invece non riescono). Più di quanti muoiano in guerra o per catastrofi naturali: 1 ogni 40 secondi, per l’Organizzazione mondiale della sanità. Le vittime, 8 su 10 sono uomini, e in maggioranza, più del 70%, hanno dai 45 anni in su. Ma – ed è il primo luogo comune da combattere – si è in presenza di un disturbo mentale diagnosticato solo nel 13% dei casi (dati Istat, 2011-2013).
Come confermano gli studi sulla mente suicida, che dagli anni Sessanta si sono affermati a partire dagli Stati Uniti, chi arriva a compiere questo gesto estremo è profondamente infelice, ma non è necessariamente un malato mentale. Ci possono essere altri “elementi lesivi”: perdita del lavoro, difficoltà abitative o finanziarie o legali, problemi relazionali, abuso e dipendenza da sostanze. “Ma mica ci suicidiamo tutti!”, è quello che ci ripetiamo. Certo. Deve esserci un terreno fertile, in grado di lasciar crescere un dolore dilagante, via via più difficile da contenere. “È ovvio – spiega il prof. Maurizio Pompili, unico suicidiologo in Italia – che nei pazienti affetti da depressione maggiore, disturbo bipolare, distimia e disturbi dell’umore con diagnosi mista, il rischio di suicidio sia maggiore. Se continuiamo però a parlare solo di numeri e statistiche, perdiamo di vista l’assioma fondamentale. Il suicidio, diversamente da quello che pensiamo, non è un movimento verso la morte, è un movimento di allontanamento da un dolore mentale divenuto insopportabile, e che può cessare solo ponendo fine al nostro stato di coscienza, al nostro flusso di idee. I tassi di suicidio pressoché definiti permettono di identificare quella che è solamente la punta dell’iceberg”, scrive Pompili nel suo La prevenzione del suicidio. Le preoccupazioni e i pensieri relativi alla morte come “opzione desiderabile” sono molto più comuni di quanto possiamo immaginare.
“Sono passati poco più di tre mesi. La mia elaborazione è ancora in una fase direi primordiale, giovane, acuta come il pianto di un neonato senza la mamma. Comunque mi rendo disponibile a parlarle”. Non pensavo che C. avrebbe risposto. E invece, “3 mesi e 9 giorni dopo Marta”, io e C. siamo sedute sul suo divano. “Questo è quello che facciamo noi survivor, contiamo il tempo. Adesso mi vedi così, sono qui e parliamo… ma le crisi di dolore quando arrivano sono uno tsunami”. C. è una donna minuta. È fieramente un’insegnante, amante degli animali, di buone letture. Ha una forza – e una lucidità – che non pensi possa stare tutta in quel piccolo corpo. “È Marta. Ha messo in luce la verità sul mondo, sul nostro mondo. Forse lo sapeva che ce l’avrei fatta…”. Mentre lo dice cerca di darsi più forza, di stringersi in quelle spalle. Pensa a lei, Marta. Pensa alle altre sue due figlie. Pensa ai suoi bambini a scuola (che quest’anno per la prima volta non accompagnerà in classe). Pensa a sé, come donna. “Io ero C., la madre di Marta. Chi sono ora? In un certo senso devo ri-partorire. Mi chiedo come ne uscirò. Ma io non ne voglio uscire. Devo scendere a patti col disordine, col dolore. Trovare una nuova armonia”.
Sentendo le sue parole, capisco che potrebbe continuare ancora e ancora per ore. A salire e a discendere, a piangere e – cosa per lei più importante – a ridere delle “tante cose condivise insieme”. Grazie ai racconti, Marta è sempre più a fuoco. I suoi 40 anni. La casa dove abitava con S., la sorella di poco più piccola. Lei che suonava la viola e il pianoforte, che aveva fatto il corso di astrologia con Marco Pesatori, il cammino di Santiago con gli amici, il progetto di matrimonio a Natale… Lei che leggeva e leggeva. Più parla di sua figlia, più comprendo che il suicidio – “il tumore dell’anima”, come lo chiama C. – non è degli ultimi.
“Nella nostra società c’è il cancro, ci sono gli incidenti, ma i morti per suicidio non devono esistere”, sentenzia. “Sai che il prete che ha officiato il funerale non mi ha stretto la mano per le condoglianze? Il famoso “stigma”. Ma io me ne frego, cammino a testa alta. Perché so che accanto ho Marta. Lei è più viva adesso che prima”. C. si ricorda la canzone di Fabrizio De André, Preghiera in gennaio: “Ai suicidi dirà/Baciandoli alla fronte/Venite in Paradiso/Là dove vado anch’io/Perché non c’è l’inferno/Nel mondo del buon Dio…”.
Dove c’è un suicidio c’è un “survivor”. Anzi – secondo Edwin Shneidman, scienziato e padre della suicidiologia moderna – per ogni suicidio ci sono tra 6 e 10 survivor: familiari, amici, fidanzati e mogli che hanno sperimentato questo evento traumatico che ha fatto precipitare d’improvviso le loro vite. Incredulità. Ricerca di spiegazioni. Perché. “Se solo…”. “Dove ho sbagliato?”. Crisi d’ansia, incubi. Depressione. Rabbia. Perdere un proprio caro perché si è tolto la vita è un’esperienza diversa da altri tipi di lutto: per l’American psychiatric association è un evento “catastrofico” simile all’esperienza in un campo di concentramento. “In Italia esiste un solo centro di prevenzione al suicidio e supporto ai survivor: è all’ospedale Sant’ Andrea di Roma, diretto dal prof. Maurizio Pompili. Noi siamo andate. Pompili fa molto con poco: è una goccia lucente nella disperazione. Devi assolutamente andare a conoscerlo”.
“Pronto, servizio di prevenzione al suicidio, chi parla?”. Per arrivare al “Servizio di prevenzione al suicidio” dell’azienda ospedaliero-universitaria Sant’Andrea di Roma, devi – come mi aveva anticipato con un po’ di ironia C. – scendere nei vari gironi giù per le scale fino al seminterrato, tra il reparto di psichiatria e le indicazioni per la camera mortuaria: “Che se non ti sei ancora suicidato ti viene da farci un pensierino…”.
Qui ogni martedì pomeriggio, tra prime visite e controlli, si accolgono e curano in media mille pazienti all’anno (senza contare le diverse migliaia di interazioni con chi telefona o chiede informazioni via email). “Vengono soprattutto per il passaparola, e perché siamo il primo risultato su Google se cerca ‘prevenzione suicidio’. Così qui arriva chi vuole morire, chi ha già tentato di farlo e magari sta vivendo una nuova fase acuta del suo dolore. Arrivano i survivor”. Denise Erbuto è la psicologa e psicoterapeuta che – assieme a Pompili, vero pioniere della struttura, nonché direttore oggi dell’intero reparto di Psichiatria – rappresenta l’anima di questo servizio. “Qui si fa tesoro dell’aiuto di tutti, tra volontari, personale in formazione e colleghi. All’estero ci sono investimenti maggiori per la prevenzione del suicidio, ma forse noi abbiamo l’entusiasmo per qualcosa che abbiamo fondato, e pur di stampare brochure divulgative o sostenere il nostro sito ci arrangiamo. Diciamo che teniamo più a dare continuità del servizio… L’esperienza umana, per noi operatori, è unica e irripetibile. Ci si confronta con una realtà spesso negata persino dalla pratica clinica, impreparata ad accogliere anche uno – figuriamoci decine – di soggetti a rischio suicidio”.
La strada è stata tutta in salita. “La prima conferenza del prof., nel 2005, aveva raccolto 50 persone. Al ‘Convegno internazionale di suicidiologia e salute pubblica’, che abbiamo organizzato alla Sapienza un mese fa, avevamo circa 2.500 richieste di iscrizione e oltre 1.200 partecipanti”. Il dato più impressionante è che 400 persone comuni sono state a seguire questa due-giorni all’università (con panel e interventi di livello scientifico altissimo, per lo più pure in lingua straniera), senza essere medici né accademici né studenti. “Questa è la dimostrazione – prosegue la dottoressa Erbuto – che, negli anni, la cultura della prevenzione del suicidio è cresciuta. C’è un grande bisogno di ascolto e di contatto con la sofferenza”. Il prof. Pompili parte da un principio a suo modo rivoluzionario.
Il suicidio si può prevenire. La prevenzione del suicidio ha a che fare con la vita – e non con la morte – perché dà ragione alla volontà di vivere dei soggetti che, loro malgrado, si trovano a pensare di voler morire.
“Il suicidio non è un atto ineludibile e imprevedibile. Se potessimo chiedere a un suicida che cosa gli avrebbe salvato la vita, con molta probabilità risponderebbe: smettere di pensarci. La sofferenza di questi individui è insita nei loro pensieri. Un tormento della mente a causa del quale l’individuo, non riuscendo a trovare sollievo, giunge suo malgrado, e dopo molte incertezze, a ritenere il suicidio quale unica via di salvezza. Ma coloro che pensano al suicidio, e che tragicamente si suicidano, vogliono vivere!”.
Avere a che fare con la sofferenza intensa non ha scalfito la vitalità entusiasta del professore. Si aggira per le stanze, toglie e mette il camice per le visite, risponde la telefono come fosse l’ultimo dei tirocinanti, prepara gli interventi per le campagne di sensibilizzazione… e va in televisione: “Pur di parlare di prevenzione del suicidio, sono andato in Rai al Cciss-Viaggiare informati. Tra un aggiornamento sul traffico e un altro… La rubrica si chiamava ‘Le strade della mente’. Giuro…!”.
“L’elemento nuovo siamo noi”, prosegue Pompili. “Tra i nostri compiti c’è quello di promuovere consapevolezza e responsabilità nella comunità verso un tema che da sempre rappresenta un tabù”.
Basta pensare che i Paesi che hanno attivato programmi di prevenzione del suicidio sono 38: 38 in tutto il mondo. “Eppure se questa visione venisse condivisa da noi professionisti della salute, fino a toccare la sensibilità della persone comuni, potremmo offrire a quanti pensano alla morte, a quanti si trovano in quel tunnel, un porto sicuro dove rifugiarsi e riflettere con maggiori risorse sulla loro decisione. Dopo una relazione a un convegno – racconta Pompili – si avvicinò un signore con aria un po’ dimessa e gli occhi lucidi. Mi ringraziava calorosamente e mi raccontava la sua storia di survivor per aver perso suo figlio, e quella di tentatore di suicidio in tre occasioni. Mi disse che, parlando della sua sofferenza, lo avevo aiutato. Agli uomini come lui, alle persone comuni che vivono la miseria umana, quella fatta di sconfitte, umiliazioni, vergogna, fino al dolore mentale insopportabile, a questi nuovi poveri noi dobbiamo rivolgere il nostro aiuto. Non mi stancherò di dirlo”.
“La mattina eravamo andate in ospedale assieme perché Marta doveva ritirare il risultato di un esame. Pensavo fosse un po’ assente per quello, l’esame era andato bene però… Era – adesso l’ho capito – perché aveva deciso. Sotto casa mi disse: ‘Lasciami qui, compro le sigarette e faccio un salto in farmacia’”. In farmacia, quella mattina, Marta non c’è mai andata. Alle 10.30 invia un sms alla sorella, come tante altre volte: “Ti voglio bene”. Chiama la madre al telefono. Manda un vocale affettuoso al fidanzato. Alle 11.30 spegne il cellulare.
“Quello che ha fatto a casa…”
S. si interrompe. Non smette di guardarti quando racconta, ma capisci, seguendo i suoi occhi, che è lontano. S. mentre torna a casa dal lavoro e apre la porta di casa. S. mentre trova il diario di Marta aperto sul tavolo (e capisce). S. mentre arriva nella sua camera. E apre…
Si ferma di nuovo.
“Attraverso le sue cose, oggi, cerchiamo di dare un senso… riavvolgendo il filo d’Arianna”. S. ha 37 anni, da poco compiuti. È la sorella di Marta. Due occhi grandi, bellissimi, carichi di un dolore che le ha impresso, oltre l’anima, il volto. È come scrive Cesare Pavese: “Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta”. “Il lavoro mi sta logorando”, era la cosa che Marta ripeteva a S. sempre più spesso. Specie da aprile-maggio 2018, Marta non dormiva più bene la notte. È così che va dal suo medico curante e si porta a casa la prima confezione di En, un farmaco a base di benzodiazepine. “È stata quell’esperienza a Milano ad averla segnata profondamente: si era indebolita, non so spiegare…”. Marta era una manager nel settore digital di una grande azienda, intermediario tra e-commerce e grandi marchi di moda. Ma era come se – sua sorella e sua madre questo lo hanno letto poi nel diario – dopo Milano sentisse di aver fallito. Come se improvvisamente avesse capito, “lei che si sentiva wonder woman”, che il successo non è definitivo, e che ci vuole un sacco di coraggio ad andare avanti. “Lo abbiamo scoperto quando tutto era già finito. Questo e tanto altro. Marta ci nascondeva l’uso di ansiolitici e, nell’ultimo periodo, anche di un antidepressivo. Credeva di avere il controllo della situazione…”.
Con la prescrizione del suo medico di base su carta bianca – non tracciabile, e ripetibile in 30 giorni 3 volte – Marta, in quei pochi mesi a Milano, era arrivata a girare 4 farmacie diverse in un giorno. “Ore 14:14 farmacia X, 14:29 farmacia Y… Lo abbiamo ricostruito dopo… In quel periodo era arrivata a comprare il dosaggio mensile – tre, quattro confezioni di En (11,26 euro per una scatola da 20 compresse) – in un giorno solo”. Le indicazioni terapeutiche dell’En riportano: “Il trattamento dell’ansia dovrebbe essere il più breve possibile; il paziente dovrebbe essere rivalutato regolarmente; la durata complessiva del trattamento non dovrebbe superare le 8-12 settimane”. Marta, invece, andava avanti così da due anni. Da sola.
Marta era una high-dose user. Così vengono definite le milioni di persone che assumono alti dosi di benzodiazepine, BZD. Farmaci che da più di 50 anni si sono affermati, prima negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, poi nel resto dei Paesi ad alto sviluppo economico, come sostituti dei barbiturici: principalmente compresse per dormire e agenti anti-ansia. Le benzodiazepine sono tra gli agenti farmacologici più prescritti al mondo, nonostante nei diversi bugiardini sia ripetuto: “Sono indicate soltanto quando il disturbo è grave e disabilitante”. In Italia a farne uso sono 6 milioni di persone (il 10% della popolazione). “L’oppio delle masse”, secondo la celebre definizione dello psichiatria Malcolm Lader (la “miniera d’oro”, per le case farmaceutiche). Spiega il dottor Fabio Lugoboni – responsabile dell’unità operativa “Medicina delle dipendenze” presso il Policlinico Rossi-Aoui di Verona, che dal 2000 ha trattato più di 1.400 grandi abusatori di BZD – “da parte di medici e pazienti, c’è una tacita accettazione, oltre che un imbarazzante silenzio e condiscendenza, dell’uso a lungo termine delle BZD: un fenomeno che coinvolge tra il 2 e il 7,5% della popolazione. Negli anni abbiamo visto come le persone che sviluppano dipendenza da BZD continuino l’assunzione oltre la durata raccomandata perché è proprio il medico a mantenerne l’uso. È così nell’85% dei casi, ecco perché si parla di dipendenza ‘involontaria’ o ‘iatrogena’”. Non si tratta, quindi, di persone con in partenza comportamenti “tossicomani”. Tossici lo diventano. E gli iniziali benefici che si avvertono grazie alle proprietà ansiolitiche e sedative divengono così “specchi per le allodole, inganni generativi di situazioni conflittuali, di sofferenza, di senso di inadeguatezza”.
“Sono droghe legalizzate, di questo parliamo”. C., la madre di Marta, era rimasta in silenzio per lasciare il tempo e lo spazio al dolore dell’altra sua figlia. Tira fuori un quadernino, che aveva tenuto accanto a lei sul divano su cui siamo sedute da ore: “Ho scritto delle cose che voglio che tu dica” (si vede che C. ama essere insegnante, ama la sua scuola, ama il futuro, nonostante tutto). “Ci vogliono vivi ma dipendenti”. Non sta leggendo, ancora. “Sai per quanti mesi, altro che 8 settimane, il medico di base le ha prescritto l’ansiolitico? Quanti farmacisti, che la conoscessero o meno, la vedevano entrare, magari al primo giro la ricetta gliela timbravano pure, ma poi o lei diceva di averla dimenticata o perché era vestita e truccata bene… ma qualcuno le ha mai chiesto qualcosa, si è mai rifiutato di venderle le medicine? E poi tu hai accesso a tutti i superalcolici che vuoi… Torni a casa dal lavoro tardi, una sosta veloce al supermercato, ti addormenti pensando che il giorno seguente sarà uguale a quello appena passato. E silenzi il tuo sintomo, dai un nome al tuo dolore. E allora, aperti perennemente sul teatro del suicidio, affacciati su quel pozzo nero, camminiamo costeggiando un precipizio. Fino a quando, poi, precipiti”.
Ora C. è arrabbiata. Indossa gli occhiali e inizia coi suoi punti: “Non ci sono campagne di prevenzione, a partire dalle scuole. Se il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani quanto vogliamo aspettare? Se non hai i soldi per pagare uno specialista privato o una clinica, sempre che tu ti convinca ad andarci, le strutture più diffuse per il sistema sanitario nazionale sono i Cim-Centri di igiene mentale delle Asl: ci sei mai andata? Non te lo consiglio. I segnali: esiste un’ampia letteratura che dice che il suicidio è prevedibile. Questo lo abbiamo imparato dopo la morte di Marta grazie alla nostra biblioteca del lutto, li vedi tutti quei libri lì di fronte? Da Pompili a Hillman, siamo diventate delle ricercatrici grazie a lei”, si permette un sorriso, mentre parla come un fiume in piena. “Ogni anno è come se sparisse un intero paese… quattromila anime. E tu Stato che fai? Sottodimensioni il fenomeno? Non specializzi i tuoi medici, gli insegnanti, i farmacisti? Ti giri dall’altra parte?”.
C. si alza in piedi. Mi aveva fatto vedere, qualche ora prima, le foto di Marta, le foto di famiglia. Tre figlie femmine, e due genitori che ancora si vogliono bene. “Guarda – mi diceva indicando gli scatti più recenti di Marta – già si vedeva… guarda gli occhi, sempre vestita di nero…”. Ora, in mezzo alla stanza, è come se si trovasse in mezzo a quella gente che in paese la ferma e le dice incredula: “Ma come è possibile, Marta?”. “Sì, Marta! Eh, sì, l’ha fatto Marta! Marta, l’ha fatto”, urla. “L’ha fatto una come Marta”.
“Io le vedo le persone ora per strada. È pieno di zombie, con gli occhi spenti, vitrei, lo sguardo basso. Invisibili. Sono invisibili per tutti. Me la immagino per strada, Marta…”. E C. inizia a camminare ripetendone i gesti e le movenze. “Lei vestita di nero, con i suoi occhialoni da sole. ‘Devi essere performante’. ‘Devi essere felice’. ‘Devi fare i numeri’. ‘Non devi sbagliare’. Ora la vedo. Marta”.
“Ci perdiamo così tanto… Io non so più dove stia la verità”.
1-Continua