il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2019
Per la Casellati un vitalizio da 200 mila euro
Il segreto meglio custodito del Senato. Almeno sinora. Con tutti i dettagli su come è stato possibile elargire a Maria Elisabetta Alberti Casellati il vitalizio anche per i tre anni e spicci in cui è stata membro laico del Consiglio superiore della magistratura. E questo nonostante il divieto di cumulo tra la pensione da senatrice e lo stipendio che gli ha versato ogni mese il Csm dove era stata eletta in quota Forza Italia nel 2014 e dove ha seduto fino alle sue dimissioni anticipate decise per potersi ricandidare alle politiche nel 2018.
Una sentenza, che Il Fatto ha potuto leggere, arrivata quando la Casellati era già divenuta presidente del Senato. Sette pagine intestate Consiglio di Garanzia, uno degli organi di giustizia interna di Palazzo Madama (peraltro quello della legislatura precedente, prorogato per mesi), che porta la firma di due eletti dello stesso partito della Casellati, Bruno Alicata (presidente) e Salvatore Torrisi (poi passato con Angelino Alfano, estensore della sentenza); due rappresentanti del Pd, Giuseppe Cucca e Rosanna Filippini; e infine, un grillino poi passato a Italia dei Valori, Francesco Molinari. È questa la decisione che ha permesso alla Casellati di mettere le mani su un assegno a molti zeri: secondo calcoli approssimativi circa 200mila euro netti che in primo grado le erano stati negati.
I fatti. Alberti Casellati nel 2014 viene eletta dal Parlamento come membro del Csm e lascia per incompatibilità con la nuova carica la sua poltrona da senatrice. Il Csm le paga lo stipendio, che è pari a circa 16 mila euro netti al mese più una ricca buonuscita che spetta a ciascun consigliere, un bonus finale tra i 70 e i 100 mila euro. Ma la ex senatrice pretende di godere, nonostante il nuovo incarico, anche del vitalizio maturato per i suoi anni a Palazzo Madama dal suo debutto in politica con Berlusconi nel 1994 ad oggi, salvo la legislatura 1996-2001.
L’amministrazione di Palazzo Madama, però, non paga e lei incarica un avvocato amministrativo di grido, Luisa Torchia, di presentare ricorso alla Commissione contenziosa, organo di primo grado della giustizia interna (autodichia) del Senato con il quale impugna la decisione dell’allora presidente Pietro Grasso, che le aveva riconosciuto il trattamento pensionistico, ma ne aveva sospeso l’erogazione.
Grasso aveva semplicemente applicato il Regolamento del 2012, che prevede la sospensione della pensione “in caso di elezione o nomina a un incarico per il quale la legge preveda l’incompatibilità con il mandato parlamentare, ove il compenso spettante sia pari o superiore al 50% dell’indennità parlamentare”. È proprio il caso del Csm: e infatti la Commissione dà torto alla Casellati applicando la norma concepita per eliminare ogni disparità tra Camera e Senato. I membri del Csm provenienti dalla Camera (come Michele Vietti ed Enrico La Loggia) si sono sempre visti negare l’erogazione del vitalizio da Montecitorio negli anni passati all’organo di autogoverno dei magistrati. Invece prima della stretta, quelli provenienti da Palazzo Madama avevano ottenuto il vitalizio fino all’ultimo euro: come Guido Calvi che ottenne l’assegno invece negato a Vietti, sebbene fossero stati eletti dal Parlamento al Csm lo stesso giorno.
Ma nonostante la sentenza che non aveva potuto far altro che applicare le nuove regole, Casellati non si dà per vinta: fa ricorso in appello al Consiglio di garanzia del Senato denunciando “l’illegittimità dell’articolo 6 del Regolamento sulle pensioni dei senatori per violazione dei principi di ragionevolezza e logicità”. Non basta: chiede anche la condanna dell’amministrazione del Senato al pagamento delle spese di lite. Palazzo Madama si costituisce per opporsi alle sue richieste.
Poi lo scenario cambia: a marzo 2018 l’agguerrita ricorrente diventa presidente a Palazzo Madama mentre in tema di vitalizi accadono cose importanti. Alla Camera, nel mese di giugno, il presidente Roberto Fico approva il taglio degli assegni pensionistici dei deputati. E il Senato che fa? Il Senato audisce, chiede pareri agli esperti, insomma prende tempo. Su tutto il fronte, meno che sul vitalizio della sua presidente: il 5 settembre 2018 infatti, ecco l’agognato verdetto del Collegio di garanzia. E che verdetto: pieno accoglimento delle richieste della Casellati grazie a una sentenza che dichiara illegittimo l’articolo 6 del Regolamento.
La motivazione? I senatori che approdano al Csm non si devono considerare collegati alla politica nonostante vengano eletti in quel ruolo in base a accordi tra partiti. Sentite qui cosa scrive il Collegio di Garanzia: “La difformità dell’articolo 6 rispetto ai principi generali di ragionevolezza e logicità scaturisce da una disciplina che accomuna in modo analogo fattispecie eterogenee, riconnettendo la sospensione dell’erogazione della pensione spettante ad un senatore sia nel caso in cui questi assuma un mandato espressione della volontà popolare sia nel caso diverso quale è quello in cui si trova la ricorrente – in cui il Senatore ricopra una carica di altra natura”.
Le regole insomma sarebbero irragionevoli e discriminatorie e per questo “il divieto di cumulo tra l’assegno vitalizio riconosciuto ai senatori cessati dalla carica non può legittimamente operare nel caso in cui l’incarico attribuito all’ex senatore sia privo di connotazione politica e presupponga, invece, l’assoluta indipendenza del soggetto nominato dal potere politico”.
Gioco, partita, incontro per la Casellati. Che comunque ha evitato di firmare il decreto di assegnazione del vitalizio alla sua persona: ha preferito invece che a vergarlo fosse uno dei suoi vicepresidenti, Roberto Calderoli. Quando si dice l’eleganza istituzionale.