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 2019  ottobre 06 Domenica calendario

Biografia di Roman Polanski

L’ho incontrato soltanto un paio di volte, ma poche persone hanno lasciato dentro di me un’impressione più forte e indelebile. Fa impressione quanto sembri giovane, per i suoi 86 anni, e non sono certamente le scarpe da ginnastica o i maglioni colorati. È l’energia fulminante, il sorriso a mezza bocca di chi ha già capito quello che stai per dire, e lo sguardo di chi ha visto l’inferno. Ha modi estremamente garbati, sorridenti, ma quegli occhi diabolici da seduttore hanno qualcosa di drammatico, e svelano un’intelligenza profonda, imprevedibile e lontana da ogni conformismo. 
È stato lui a chiedermi di chiamarlo Roman, sin dal primo appuntamento al bar l’Avenue su Avenue Montaigne. È di casa, lì, quasi un secondo ufficio, e dal momento in cui è arrivato è stato un susseguirsi di saluti, omaggi, battute. Bienvenue, Roman. Comment ça va, Roman? Esque-tu veux boire quelque chose, Roman? Lo chiamavano tutti per nome, e lui rispondeva con gentilezza, non so se felice o semplicemente abituato: a Parigi ha trovato una ennesima patria, ma l’ultima fuga è stata dalla giustizia americana. 
Di statura è molto piccolo ed è sempre in movimento, ma nel sorriso scorgi un’assenza, un vuoto senza fondo: è lì che si cela il dolore straziante e incolmabile. Ha avuto una vita tragica sin da quando è nato con il nome di Rajmund Thierry, e la sua esistenza è stata dominata da una violenza assurda ed efferata. Si è macchiato a sua volta di un atto imperdonabile, mentre continuava a mostrare al mondo un talento straordinario e tra i più originali della settima arte. 
Lo avevo incontrato per invitarlo a una serata in suo onore alla Festa del Cinema e lui mi chiese, in perfetto italiano, «Ne sei proprio sicuro?». Gli dissi di sì, con entusiasmo, «Il mio lavoro è celebrare l’arte, sulle questioni private spetta ad altri esprimere giudizi», e lui scosse la testa, come se una verità così ovvia fosse oggi impronunciabile. «Non credo mi sia possibile», mi disse, «ma sono felice che tu me l’abbia chiesto». 
A quel punto cominciammo a parlare di cinema, e iniziai a tormentarlo su Chinatown, uno dei miei film preferiti. Quando gli chiesi della duplice matrice giudaica e cristiana del nome del Noah Cross mi ha risposto solo con il sorriso a mezza bocca, ricordandomi che la sceneggiatura è di Robert Towne. Salvo poi aggiungere che ci aveva lavorato anche lui per disposizione del produttore Robert Evans, il quale a una prima lettura aveva detto: «Mi rendo conto che è un grande film, ma non ci ho capito niente». E Roman si mise a lavorare insieme a Towne su quel copione magnifico e misterioso, che metteva insieme storie di omicidi, incesti e tradimenti con lo sviluppo urbanistico di Los Angeles a scapito di agricoltori ridotti in miseria per la privazione dell’acqua. 
Mi disse che aveva acconciato Faye Dunaway come la madre, «una donna elegante», ed ebbi l’impressione che Roman si identificasse in tutti i personaggi, anche quelli negativi. Gli citai la scena in cui il carismatico e mostruoso Noah Cross dice: «Certo che sono rispettabile. Sono vecchio. I politici, gli edifici pubblici e le puttane diventano rispettabili se durano abbastanza a lungo». Ancora una volta replicò con un sorriso senza risposta, ma la battuta nasceva dritta dal suo cuore. Per non parlare di «Lascia stare Jack, è Chinatown»: non si parla soltanto di un quartiere, ma di una condizione esistenziale di disordine e corruzione. Conosce il cinema come pochi, Roman, e ama i classici, a cominciare da 8 e ½ e Quarto potere. È severissimo invece sui registi della Nouvelle Vague, «mi sembrano ragazzini che giocano a fare i rivoluzionari. Sono passato anch’io in quella fase, ma vengo da un Paese dove quelle cose sono successe veramente». 
Mi chiesi cosa potesse significare vivere con tutto quell’orrore che aveva visto con i propri occhi, e cosa gli dicesse la sua coscienza ripensando a quello che aveva fatto. Sono molti anni che Samantha Gailey lo ha perdonato: aveva tredici anni quando lui l’ha sodomizzata dopo averla fatta drogare, e quell’atto rimane agghiacciante, anche al netto dell’esuberanza sessuale di quel periodo e delle responsabilità della madre di Samantha, che aveva spinto la ragazzina, aspirante attrice, tra le sue braccia. 
Mi chiesi anche cosa avesse significato aver vissuto sotto il comunismo che definisce «peggiore della peggior forma di capitalismo: solo chi l’ha vissuto può dirlo». E sotto il nazismo. Ha assistito da bambino alla liquidazione del ghetto di Cracovia, il cui primo atto fu l’uccisione, con un colpo di pistola nella schiena, di una donna anziana che non riusciva a reggere il passo ordinato dai soldati. La donna morì a pochi passi da Roman, e lui ancora ne ricorda con terrore il sangue che usciva a fiotti. Ha visto amici e parenti massacrati sotto i suoi occhi, e i genitori deportati ad Auschwitz, da dove la madre non è più tornata. Ed è stato utilizzato come bersaglio da alcuni cecchini tedeschi: ancora oggi non sa come sia sopravvissuto. Ma forse non esiste niente di più tragico dell’omicidio, molti anni dopo, della moglie Sharon Tate, martoriata a coltellate al nono mese di gravidanza nel massacro di Bel Air. 
L’orrore lo aveva seguito anche in America, e niente lo aveva sconvolto come la parola «Pig» scritta dalla famiglia Manson sulle pareti di casa con il sangue della moglie. L’orrore non finiva lì: seguì l’oltraggio di essere dipinto sulla stampa come un possibile responsabile del massacro, in virtù del fatto che aveva girato il sulfureo e magnifico Rosemary’s Baby. Da allora non legge più nulla che lo riguardi. A rivedere i suoi film, si capisce come tenti di esorcizzare questi traumi: Oliver Twist, nel quale si identifica nel bambino che cerca di sopravvivere alle avversità. O Il pianista, pieno di elementi autobiografici. Lo splendido Macbeth, avvolto in una luce cupa e disperata, girato poco dopo la morte della moglie. 
Non è meno evidente il racconto costante del male puro, come in Rosemary’s Baby e L’inquilino del terzo piano. Persino in Per favore, non mordermi sul collo è il maligno a prevalere, eppure è un film giocoso, apparentemente spensierato. Recita con passione e divertimento, in quel film, ma nessuna interpretazione è stata struggente quanto Gregor Samsa dell’adattamento teatrale della Metamorfosi di Kafka. Roman riusciva a farti vedere l’uomo diventato scarafaggio, e l’assurdo spasmo di una condizione esistenziale dove si può solo soccombere, sbagliare e soffrire. 
Pochi cineasti gli hanno voluto bene come Gillo Pontecorvo, con il quale ebbe una fidanzata in comune. Quando dirigeva il Festival di Venezia volle onorarlo del Leone alla Carriera nel 1993, e tre anni più tardi lo chiamò come presidente della giuria: oggi sarebbe impensabile, eppure tutto ciò avvenne venti anni dopo lo stupro della minorenne, senza che poi sia successo nulla. Non potrei immaginare due persone maggiormente diversa, anche ideologicamente, ma l’affetto e la stima reciproca era autentica, ed erano accomunati dall’obbedire solamente a quello che Pontecovo chiamava la dittatura della verità. Oggi, se parli di questo tema, Roman ti guarda con disincanto, rinunciando per una volta a quel sorriso: «Esistono i sogni e le illusioni», mi disse quella prima volta, «fantasmi, come quelli che ho raccontato».